domenica 20 dicembre 2009

Il Matrmonio con il Mare - dal film il Leone di Venezia


Il Matrmonio con il Mare - dal film il Leone di Venezia

giovedì 17 dicembre 2009

Si vende anche il palazzo del Capitanio

Si vende anche il palazzo del Capitanio
Giovedì 17 Dicembre 2009 L'ARENA

LA PARTITA DELLE ALIENAZIONI. Con un emendamento al documento finanziario Palazzo Barbieri dà il via a un’asta pubblica per la quota di edificio verso piazza Viviani

Il Comune ne mette all’asta una parte per 10 milioni, ma scoppia il caso.

Il Pd: «Si svende tutto»

Imbarazzi nella maggioranza

Va in vendita un altro edificio storico. Il Comune mette all’asta una parte del palazzo del Capitanio, con base d’asta 10 milioni. È l’ala del complesso rivolta verso piazza Viviani, con destinazione commerciale, residenziale e direzionale, cioè per uffici, e potenzialmente anche ricettiva, quindi alberghiera. Il Comune vuole destinare i soldi che ricaverà per pagare i lavori di ristrutturazione dell’ex Arsenale.

RESTAURI. L’amministrazione, su proposta dell’assessore al patrimonio Daniele Polato, ha inserito sul filo di lana l’emendamento relativo all’alienazione del Palazzo dell’ex Tribunale nel bilancio previsionale 2010, la cui discussione è cominciata ieri pomeriggio in Consiglio comunale. Con i fari puntati, fin da subito, proprio su quell’emendamento. Sui banchi dell’opposizione contesta in particolare l’operazione il gruppo del Pd, soprattutto per il fatto che — come rilevavano i consiglieri in una conferenza stampa prima della seduta — «la Giunta l’ha inserita all’ultimo momento, senza che ne fossimo a conoscenza. Avanti di questo passo si svende la città», dice il capogruppo Stefania Sartori, con i colleghi Roberto Uboldi, Fabio Segattini, Giancarlo Montagnoli e Carla Padovani. Ma anche nella maggioranza di centrodestra in Consiglio sono emerse perplessità, sull’operazione.

LA SCELTA. La quota in vendita del palazzo del Capitanio, già sede degli uffici giudiziari (fatto costruire da Cansignorio della Scala a partire dal 1360 circa; il nome sarebbe infatti palazzo di Cansignorio) è di 5.663 metri quadrati, su quattro piani, più 232 di sottotetto. L’asta sarà pubblica, con eventuale facoltà di accettare anche offerte inferiori (previo parere favorevole della Giunta), negli esperimenti di gara successivi al primo che fosse risultato deserto. Con l’emendamento al bilancio l’amministrazione stralcia così dal Piano triennale delle opere pubbliche l’intervento di ristrutturazione del palazzo. «Svendita? Macché. Vendiamo la parte più degradata e non più utilizzata. Ristrutturarla costerebbe 60 milioni», dice Polato, «mentre resta di proprietà comunale la parte verso piazza dei Signori, tutt’ora occupata, che comprende la torre. Per la Sovrintendenza l’operazione è possibile e qualsiasi soluzione di cambio di destinazione è sempre migliore rispetto alle attuali condizioni vergognose dell’edificio, dove regna la sporcizia. La destinazione srà soprattutto residenziale».

Il Pd contesta che dopo aver venduto palazzo Forti, oltre al Gobetti, oltre a cedere all’Agec l’immobile delle mensa del Camploy, il Comune si privi anche di un altro edificio. Che fra l’altro pareva destinato a ospitare il museo di Storia naturale. «Con la Fondazione Cariverona che ha Castel San Pietro, lascia la Galleria d’arte moderna a palazzo Forti, ha il polo culturale agli ex Magazzini generali, con il palazzo della Ragione per le mostre, non aveva senso che anche quella parte di Palazzo del Capitanio diventasse un museo. Noi comunque abbiamo sempre detto che le risorse da alienazioni patrimoniali finanzieranno il restauro dell’Arsenale, che costa 80 milioni».

mercoledì 9 dicembre 2009

La filanda, le cave: «Piazza San Marco costruita qui»

La filanda, le cave: «Piazza San Marco costruita qui»
8 dicembre 2009, CORRIERE DEL VENETO

L’intervista Il futuro? Con Este, Montagnana e le Terme

Lo storico Valandro: culla di anarcosocialisti

«Nel 1200 Monselice era un centro vivace, aveva circa cinquemila abitanti, contro i ventimila di Padova. Poi venne la Serenissima e la cittadina visse un periodo di sonnolenza. Con la prima filanda riprese quota, fu centro di irradiazione del movimento anarco-socialista. Vennero le guerre, l’emigrazione, gli operai, la ferrovia, le industrie delle cave, del cemento. Ora, dopo il declino della grande industria, vedo un futuro turistico integrato con Este, Montagnana e l’area termale. Monselice offre il monte sacro, la Rocca medievale che domina la pianura e si vede da lontano. E il suo bell’ambiente collinare».

La sintesi storica è del professor Roberto Valandro, 67 anni, per definire il quale bastano le dimensioni di una delle sue fatiche letterarie: tre volumi dedicati interamente a Monselice, quasi ottocento pagine dense di storia. Un viaggio nei secoli, anzi, nei millenni di Monselice, dall’età del bronzo all’epoca del cemento, con il dichiarato intento di salvarne il patrimonio orale.

Professore, cos’è Monselice?

«Prima di iniziare volevo annunciare che proprio di recente è stata scoperta una stazione dell’età del rame, cioè 4-5mila anni avanti Cristo. Il mio libro partiva invece dall’età del bronzo, duemila anni dopo. Sono stati ritrovati frammenti ceramici, reperti archeologici che retrodatano l’origine di questi luoghi. Monselice? Monselice è una città aperta, crocevia di flussi commerciali, lavorativi e migratori. Questo è diventata ma per capirne di più bisognerebbe raccontare le sue origini».

Da dove partiamo considerando lo spazio di un articolo?

«Facciamo dalla prima industria della metà dell’800, ricordando però che la repubblica Serenissima ha lasciato un’eredità architettonica di pregio, con ville in stile veneziano. Fra gli attori principali del rapporto di Monselice con Venezia, la famiglia Cini. Vittorio, padre di Giorgio della Fondazione Cini di Venezia, aveva le cave. Fu lui a iniziare. Sposò una donna di Monselice. Le cave hanno avuto nel tempo una grande importanza per il Veneto. Con il materiale estratto dal monte Ricco si sono fatti gli argini del Polesine e l’autostrada Padova-Bologna. La pietra è stata usata anche per piazza San Marco».

E la filanda?

«La prima venne impiantata nel 1846, primo e unico insediamento industriale nella Bassa Padovana fino agli anni ’70. Si chiamava Trieste come i suoi fondatori, Maso e Giacobbe, che a Padova avevano creato un potentato economico: Maso fu fondatore della Banca Popolare nel 1866. Alla filanda Trieste lavoravano 187 operai: 7 maschi, 144 femmine sopra i 18 anni, 20 femmine sotto i 18, 6 sotto i 14, 10 sotto i 10. Particolarità: le filandiere venivano quasi tutte da fuori, soprattutto da Valdobbiadene e da su».

Perché?

«Perché erano più forti delle nostre, più montanare, più abituate alla fatica delle 14 ore lavorative al giorno. Il primo sciopero della Bassa lo fecero proprio loro e naturalmente rappresentò un atto rivoluzionario».

Perché Monselice ha radici anarcosocialiste?

«Fu la reazione ottocentesca alle classe padronale. Guidarono quel movimento Carlo Monticelli e Angelo Galeno. Monticelli rappresentava l’ala estremista, quella che oggi potrebbe essere il circolo Varalli, il centro sociale. Era per la rivoluzione. Galeno, che fu anche onorevole, rappresentò invece il fermento socialisteggiante più istituzionale. Da lì nacquero le società operaie che garantivano la mutualità».

Altre tappe fondamentali della storia di Monselice?

«Sicuramente la realizzazione della ferrovia, che ne fece un importante snodo commerciale. Cini aveva un treno speciale per trasportare la trachite a Venezia. La vaporiera veniva chiamata Vacca mora perché trainava i vagoni come il bue con il carro. Altro periodo importante, il dopoguerra, con l’emigrazione nel triangolo industriale Milano-Torino-Genova che venne in parte compensata dall’immigrazione dal meridione. Questi movimenti fecero di Monselice una città aperta, molto più di Este e Montagnana, che era esclusa da questi passaggi ».

Politicamente?

«Dal dopoguerra è stato un feudo della democrazia cristiana, poi ci fu una parentesi comunista, ora è riemersa l’anima liberale».

Filanda e cave non esistono più. Resiste il cemento. Quale sarà la futura Vacca mora di Monselice?

«Io penso che l’industria del futuro potrebbe essere quella turistica, integrata con Montagnana, Este e le terme. Montagnana ha mura strepitose, Este uno splendido museo nazionale atestino, a Monselice si respira invece un’atmosfera medievale e veneziana. E per chiudere, un bagno caldo qualche chilometro più su».

A.P.

lunedì 7 dicembre 2009

PADOVA: ritrovati reperti archeologici

PADOVA: ritrovati reperti archeologici
Venerdì, 10 Marzo 2006 Il Gazzettino online

È lungo 14 centimetri. Un pollicione, quindi, che apparteneva alla mano di una statua alta almeno sei metri, di cui per il momento non ci sono altre tracce, che risale al III o IV secolo dopo Cristo. L'eccezionale reperto archeologico in marmo bianco è stato rinvenuto nel sottosuolo del cortile dell'ex Tribunale di via Alessio, dove sono in corso i lavori per trasformare la struttura in un centro Culturale. Il cantiere, che procede sotto lo stretto controllo della Sovrintendenza, nelle scorse settimane aveva riservato altre sorprese, dato che erano state rinvenute moltissime anfore di epoca romana che servivano per il drenaggio del terreno.
La presenza della statua potrebbe aprire nuovi scenari su come veniva utilizzato il sito all'epoca: fino a oggi, infatti, si è creduto che fosse a uso esclusivamente residenziale, mentre adesso si può ipotizzare che fosse monumentale.

«Per ora - spiega Maria Angela Ruta, responsabile della Tutela Archeologica della Soprintendenza - possiamo solo dire che si tratta di una rarità. Il dito, di epoca tardo-romana, appartiene a una statua di grandi dimensioni, tipica del periodo di Costantino, quando si realizzavano opere colossali di questo tipo, dedicate agli imperatori. Siamo di fronte, quindi, all'indizio di un qualcosa di imponente, ma non siamo certo in grado di dire se sarà possibile recuperare tutto il resto, oppure altri pezzi. In questo momento lo scavo è interessa un periodo ancora più indietro nel tempo, cioè l'epoca romana del I secolo dopo Cristo, come testimonia la presenza di numerose anfore di quel periodo che stiamo recuperando e mettendo al sicuro. Nel frattempo sono in corso le analisi sul pollicione per capire con che marmo sia stato realizzato: potrebbe essere addirittura quello di Paros».

Luisa Boldrin, assessore ai Beni Monumentali, sta seguendo da vicino i lavori che porteranno alla realizzazione del nuovo Centro culturale. «Il cantiere è blindato e protetto da una stretta sorveglianza - ha ricordato - per evitare che possano entrare degli sciacalli. Lo scavo sta evidenziando questa connotazione monumentale del luogo dal punto di vista archeologico, che invece si pensava fosse in epoca romana un rione ad alta densità abitativa. Dove oggi c'è il co plesso del San Gaetano è possibile che nell'antichità ci fossero gli edifici di grandi dignitari e questo spiegherebbe la presenza di una statua colossale. Ma si può pensare anche che l'opera a cui appartiene il ditone appena trovato fosse collocato nel Foro Romano che si trovava sotto l'area dove oggi c'è il Pedrocchi».

Lo scavo che interessa la superficie di quella che diventerà la nuova piazza coperta andrà avanti per almeno un altro paio di mesi: per il momento interessa la metà della superficie, ma nelle prossime settimane si sposterà sull'altra porzione di terreno, dove si spera di poter trovare la statua. Questa zona non era oggetto di indagini sotterranee dal 1300, da quando Tiberio dei Tiberi, appartenente alla Congregazione degli Umiliati, aveva fondato lì un piccolo monastero, con attigua la chiesa detta di San Francesco Piccolo.
nella foto
Prato della Valle

martedì 1 dicembre 2009

Archeosorpresa a Pesina e così ripartono gli scavi

Archeosorpresa a Pesina e così ripartono gli scavi
Domenica 29 Novembre 2009 l'arena

CAPRINO. La campagna ha avuto anche un consistente finanziamento da parte della Regione

Emerge una pavimentazione in pietra forse dell’Età del bronzo Salzani: «Se ci fosse la conferma sarebbe un evento eccezionale»

Una scommessa vinta. È un rarissimo e raffinato esempio di dimora di pietra, forse della media e recente Età del Bronzo (1600-1100 a.C.), quella emersa dallo scavo di Castel di Pesina, a Caprino, che Comune e Regione hanno nuovamente finanziato visti gli incredibili risultati dell’anno scorso, quando il ritrovamento colse di sorpresa gli archeologi intenti a lavorare sulle testimonianze di un villaggio del IX secolo a.C., quindi meno antico.
La novità ha fatto così cominciare la quarta campagna di ricerca, sempre curata dagli archeologi Martina Benati e Giovanni Ridolfi sotto la direzione del professor Luciano Salzani della Soprintendenza per i beni archeologici del Veneto - Nucleo operativo di Verona, appoggiati dal dottor Franco Zeni, responsabile del Museo civico, che ha sempre partecipato al cantiere, aperto quest’anno il 21 settembre e ora in chiusura.
«Data l’importanza dei ritrovamenti del 2008 ritenevamo fondamentale fare approfondimenti, come ci hanno permesso un nuovo e ingente contributo della Regione e il supporto logistico e in parte finanziario del Comune», dice Salzani. «Ci siamo così ancora concentrati sul lato est della cima del pianoro di Pesina», proseguono Benati e Ridolfi, «precisamente sul margine rivolto verso Caprino nella proprietà apertaci dalle suore della Compagnia di Maria, dove il "sondaggio 19", del 2008, aveva restituito parte dei resti di un’abitazione proto storica, una capanna forse risalente al 1600-1100 a.C., data che confermeremo non appena avremo il risultato dello studio dei materiali», dicono i due archeologi i quali, al pari di Salzani, fecero notare la preziosità di una simile scoperta.
Ora quel sondaggio, che era 35 metri quadri circa, è stato allargato. E lo scavo ha regalato dell’altro: «È emerso il resto della pavimentazione, sempre fatto con lastre di Nembro Rosato, pietra portata dalla vicina Lubiara». «A una prima analisi, i materiali sembrano attribuibili all’ Età del Bronzo», dice Salzani, «cosa che farebbe di questo ritrovamento un rarissimo esempio in tutto il Nord Italia di abitazione di tale periodo costruita in pietra, invece che legno, con una tecnica costruttiva che è, tra l’altro, evoluta e non certo primitiva». «Fosse anche dell’Età del Ferro (IX -V secolo a.C)», aggiunge, «sarebbe un rinvenimento eccezionale in quest’area poiché qualche esempio esiste solo in Lessinia».
Il sito di Castel di Pesina si delinea sempre più significativo anche per la continuità degli insediamenti che lo caratterizzano.
Infine Salzani annuncia che i risultati dello scavo, in relazione proprio ai materiali affiorati, saranno esposti in un convegno che Soprintendenza e Comune stanno già organizzando.