Il Gazzettino, 15 dicembre 2998
10 dicembre 1508, un anniversario passato quasi sotto silenzio
10 dicembre 1508, un anniversario passato quasi sotto silenzio: eppure cinquecento anni fa, contro la Serenissima Repubblica di Venezia, accusata di voler diventare lo stato egemone della penisola, di aspirare alla monarchia d'Italia, si formava la Lega di Cambrai, un vero e proprio trattato di aggressione sotto gli auspici del papa Giulio II (l'artefice della Basilica di San Pietro) per riportare l'orologio della storia veneziana in terraferma indietro di un secolo.
Nel corso del Quattrocento, temendo di essere accerchiata dalla parte di terra e di dover sottostare alle imposizioni dei vicini, Venezia aveva abbandonato il tradizionale imperativo di coltivar el mar e lassar star la tera', dando appunto origine al suo Stato da terra.
Poi, all'alba del Cinquecento, morto il papa Alessandro VI Borgia (1503) e crollato l'effimero stato del figlio Cesare, i veneziani avevano cercato d'ingrandirsi, sottraendo Ravenna e la Romagna alla Santa Sede. «Armerò contro di loro tutti i prìncipi della cristianità», furono le prime parole del nuovo papa Giulio II che si proponeva così di «far cessare le perdite, le ingiurie, le rapine, i danni che i Veneziani hanno arrecato non solo alla Santa Sede Apostolica, ma al Santo Romano Imperio, alla Casa d'Austria, ai Duchi di Milano, ai re di Napoli ed a molti altri principi occupando e tirannicamente usurpando i loro beni, i loro possedimenti, le loro città e castella».
Si formava la Lega di Cambrai tra l'imperatore Massimiliano I d'Austria, il re di Francia Luigi XII, lo spagnolo Ferdinando il Cattolico e altri piccoli stati; il papa, completando la coalizione che intendeva spogliare Venezia di tutti i suoi possedimenti e spingerla dentro la laguna per poi spartirsi i suoi domini, vi aderì all'inizio del 1509 e lanciò subito l'interdetto, cioè la sospensione di tutte le funzioni religiose, che la Repubblica rese però nullo proibendone la pubblicazione sotto la minaccia di pene severissime.
Eamos ad bonos venetos (andiamo con i buoni veneti) era stato nel 1416 il grido dei cadorini, che stanchi delle continue lotte tra il sacro romano imperatore e i vari signori per il possesso del castello di Pieve di Cadore e del territorio circostante proclamavano l'annessione alla Repubblica. E qui bisogna riconoscere, una volta per tutte, come scrive Charles Diehl, che Venezia governò bene i suoi nuovi possedimenti: nelle città di terraferma rispettò con cura le istituzioni locali, confermò gli statuti municipali, le magistrature, i consigli, confermò alle famiglie nobili gli antichi diritti di cui godevano, limitandosi ad inviare in ogni città un podestà per le cose civili e un capitano per le cose militari, assicurò un regime di giustizia e di protezione, sviluppò il benessere materiale, impose soltanto imposte moderate, si applicò in tutti i modi per soddisfare le popolazioni.
Eamos ad bonos venetos: fidando nell'eco di quel grido, segno di appartenenza e di fedeltà, fidando nella lealtà delle città che formavano lo Stato da terra, la Serenissima si preparò a dare battaglia sul piano diplomatico e su quello militare.
Mentre gli spagnoli ricevevano spontaneamente dalla Serenissima i porti della Puglia, i francesi iniziavano le ostilità sulla linea dell'Adda; l'esercito pontificio occupava Faenza, Ravenna, Cervia e Rimini; i vassalli di Massimiliano confinanti con la Serenissima calavano da Nord conquistando Feltre, Belluno, Trieste ed altre città; Alfonso d'Este si prendeva Rovigo, Este, Montagnana e Monselice; Gianfranco III Gonzaga si appropriava di Asola e Lonato.
Venezia, pesantemente sconfitta ad Agnadello (maggio 1509) vedeva i propri nemici arrivare fino ai bordi della laguna, mentre il malcontento dei nobili di terraferma di varie città del Veneto contro il governo della Repubblica, da cui erano stati sempre esclusi, faceva sì che parecchie città come Verona, Vicenza e Padova si concedessero ai tedeschi. Tutto il dominio sembrava crollare quando a Treviso cominciò la riscossa filoveneziana dei ceti popolari e dei contadini al grido di Viva San Marco! (10 giugno 1509). Padova veniva riconquistata, mentre il papa, soddisfatto nelle sue richieste, toglieva l'interdetto. L'abile lavoro diplomatico impostato sulle gelosie che attraversano la Lega cominciava a dare i suoi frutti. Rimanevano in campo il re di Francia, l'imperatore Massimiliano e Alfonso d'Este. I primi erano costretti a ritirarsi dall'Italia dopo sanguinosissime battaglie. Massimiliano si diceva disposto a cedere le province venete dietro il pagamento di un tributo annuo per l'investitura. Venezia rifiutava e cominciavano i rovesciamenti di alleanze. Il papa faceva lega con Massimiliano, ma poco dopo moriva (21 febbraio 1513). Gli succedeva Leone X. Venezia si alleava con la Francia contro Massimiliano.
Alla fine dei giochi, al Congresso di Bologna (1530), la Repubblica riottenne il suo Stato da terra fino all'Adda. Fu un capolavoro politico. Di fatto, il dominio di terraferma assumeva la sua forma iniziale attraverso i patti di dedizione, che vedevano territori e città contrattare (in modo effettivo) la loro aggregazione a Venezia. Si scopriva così che la città-stato era amata soprattutto dai sudditi più umili: fu proprio nei giorni tremendi seguiti alla sconfitta di Agnadello che si palesò l'attaccamento dei ceti popolari e dei contadini alla Repubblica in aperto contrasto con i vecchi padroni, con la nobiltà legata alle tramontate Signorie: «Fu una lotta furiosa, incredibile partigiana la quale basterebbe a dimostrare che, fra i vecchi padroni feudali e i nuovi, i contadini avevano decisamente scelto Venezia» (Giuseppe Fiocco).
Data per morta, la Serenissima risorge e si appresta a dimostrare di avere ancora una vita opulenta, di essere ancora la città più ricca e più lussuosa del mondo, capace di celebrare se stessa: affida il compito a grandi artisti del tempo, alcuni dei quali erano affluiti in laguna dopo il sacco di Roma (1527), perpetrato dai lanzichenecchi. Erano arrivati Codussi, Palladio, Sansovino, Sanmicheli, Scamozzi e altri. L'arte diventava così lo strumento di propaganda politica: Venezia voleva diventare la nuova Roma. Nasceva il mito di Venezia, la Repubblica ideale, la sede della libertà e della giustizia.
Giovanni Distefano
10 dicembre 1508, un anniversario passato quasi sotto silenzio
10 dicembre 1508, un anniversario passato quasi sotto silenzio: eppure cinquecento anni fa, contro la Serenissima Repubblica di Venezia, accusata di voler diventare lo stato egemone della penisola, di aspirare alla monarchia d'Italia, si formava la Lega di Cambrai, un vero e proprio trattato di aggressione sotto gli auspici del papa Giulio II (l'artefice della Basilica di San Pietro) per riportare l'orologio della storia veneziana in terraferma indietro di un secolo.
Nel corso del Quattrocento, temendo di essere accerchiata dalla parte di terra e di dover sottostare alle imposizioni dei vicini, Venezia aveva abbandonato il tradizionale imperativo di coltivar el mar e lassar star la tera', dando appunto origine al suo Stato da terra.
Poi, all'alba del Cinquecento, morto il papa Alessandro VI Borgia (1503) e crollato l'effimero stato del figlio Cesare, i veneziani avevano cercato d'ingrandirsi, sottraendo Ravenna e la Romagna alla Santa Sede. «Armerò contro di loro tutti i prìncipi della cristianità», furono le prime parole del nuovo papa Giulio II che si proponeva così di «far cessare le perdite, le ingiurie, le rapine, i danni che i Veneziani hanno arrecato non solo alla Santa Sede Apostolica, ma al Santo Romano Imperio, alla Casa d'Austria, ai Duchi di Milano, ai re di Napoli ed a molti altri principi occupando e tirannicamente usurpando i loro beni, i loro possedimenti, le loro città e castella».
Si formava la Lega di Cambrai tra l'imperatore Massimiliano I d'Austria, il re di Francia Luigi XII, lo spagnolo Ferdinando il Cattolico e altri piccoli stati; il papa, completando la coalizione che intendeva spogliare Venezia di tutti i suoi possedimenti e spingerla dentro la laguna per poi spartirsi i suoi domini, vi aderì all'inizio del 1509 e lanciò subito l'interdetto, cioè la sospensione di tutte le funzioni religiose, che la Repubblica rese però nullo proibendone la pubblicazione sotto la minaccia di pene severissime.
Eamos ad bonos venetos (andiamo con i buoni veneti) era stato nel 1416 il grido dei cadorini, che stanchi delle continue lotte tra il sacro romano imperatore e i vari signori per il possesso del castello di Pieve di Cadore e del territorio circostante proclamavano l'annessione alla Repubblica. E qui bisogna riconoscere, una volta per tutte, come scrive Charles Diehl, che Venezia governò bene i suoi nuovi possedimenti: nelle città di terraferma rispettò con cura le istituzioni locali, confermò gli statuti municipali, le magistrature, i consigli, confermò alle famiglie nobili gli antichi diritti di cui godevano, limitandosi ad inviare in ogni città un podestà per le cose civili e un capitano per le cose militari, assicurò un regime di giustizia e di protezione, sviluppò il benessere materiale, impose soltanto imposte moderate, si applicò in tutti i modi per soddisfare le popolazioni.
Eamos ad bonos venetos: fidando nell'eco di quel grido, segno di appartenenza e di fedeltà, fidando nella lealtà delle città che formavano lo Stato da terra, la Serenissima si preparò a dare battaglia sul piano diplomatico e su quello militare.
Mentre gli spagnoli ricevevano spontaneamente dalla Serenissima i porti della Puglia, i francesi iniziavano le ostilità sulla linea dell'Adda; l'esercito pontificio occupava Faenza, Ravenna, Cervia e Rimini; i vassalli di Massimiliano confinanti con la Serenissima calavano da Nord conquistando Feltre, Belluno, Trieste ed altre città; Alfonso d'Este si prendeva Rovigo, Este, Montagnana e Monselice; Gianfranco III Gonzaga si appropriava di Asola e Lonato.
Venezia, pesantemente sconfitta ad Agnadello (maggio 1509) vedeva i propri nemici arrivare fino ai bordi della laguna, mentre il malcontento dei nobili di terraferma di varie città del Veneto contro il governo della Repubblica, da cui erano stati sempre esclusi, faceva sì che parecchie città come Verona, Vicenza e Padova si concedessero ai tedeschi. Tutto il dominio sembrava crollare quando a Treviso cominciò la riscossa filoveneziana dei ceti popolari e dei contadini al grido di Viva San Marco! (10 giugno 1509). Padova veniva riconquistata, mentre il papa, soddisfatto nelle sue richieste, toglieva l'interdetto. L'abile lavoro diplomatico impostato sulle gelosie che attraversano la Lega cominciava a dare i suoi frutti. Rimanevano in campo il re di Francia, l'imperatore Massimiliano e Alfonso d'Este. I primi erano costretti a ritirarsi dall'Italia dopo sanguinosissime battaglie. Massimiliano si diceva disposto a cedere le province venete dietro il pagamento di un tributo annuo per l'investitura. Venezia rifiutava e cominciavano i rovesciamenti di alleanze. Il papa faceva lega con Massimiliano, ma poco dopo moriva (21 febbraio 1513). Gli succedeva Leone X. Venezia si alleava con la Francia contro Massimiliano.
Alla fine dei giochi, al Congresso di Bologna (1530), la Repubblica riottenne il suo Stato da terra fino all'Adda. Fu un capolavoro politico. Di fatto, il dominio di terraferma assumeva la sua forma iniziale attraverso i patti di dedizione, che vedevano territori e città contrattare (in modo effettivo) la loro aggregazione a Venezia. Si scopriva così che la città-stato era amata soprattutto dai sudditi più umili: fu proprio nei giorni tremendi seguiti alla sconfitta di Agnadello che si palesò l'attaccamento dei ceti popolari e dei contadini alla Repubblica in aperto contrasto con i vecchi padroni, con la nobiltà legata alle tramontate Signorie: «Fu una lotta furiosa, incredibile partigiana la quale basterebbe a dimostrare che, fra i vecchi padroni feudali e i nuovi, i contadini avevano decisamente scelto Venezia» (Giuseppe Fiocco).
Data per morta, la Serenissima risorge e si appresta a dimostrare di avere ancora una vita opulenta, di essere ancora la città più ricca e più lussuosa del mondo, capace di celebrare se stessa: affida il compito a grandi artisti del tempo, alcuni dei quali erano affluiti in laguna dopo il sacco di Roma (1527), perpetrato dai lanzichenecchi. Erano arrivati Codussi, Palladio, Sansovino, Sanmicheli, Scamozzi e altri. L'arte diventava così lo strumento di propaganda politica: Venezia voleva diventare la nuova Roma. Nasceva il mito di Venezia, la Repubblica ideale, la sede della libertà e della giustizia.
Giovanni Distefano
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