lunedì 20 ottobre 2008

Palladio, geometria e invenzione del Moderno

l’Unità 19.10.08
Palladio, geometria e invenzione del Moderno
di Renato Barilli

ARCHITETTURA A Vicenza omaggio al grande artefice che con Leon Battista Alberti schiuse le vie della modernità architettonica. Soluzioni semplici e geniali con figure geometriche rielaborate ed essenziali

È più che giusto che per protagonisti d’eccezione si colgano a volo le occasioni dei centenari dalla nascita o dalla morte per metterne in scena grandiose celebrazioni. Questa volta l’onore tocca all’architetto Andrea Palladio (1508-1580), per il quale Vicenza, sua città d’elezione, ha predisposto un’ampia rassegna, in Palazzo Barbaran da Porto (a cura di Guido Beltramini e Howard Burn, fino al 6 gennaio, poi alla Royal Academy di Londra). Il Palladio fu uno dei principali fondatori di una linea che potremmo legare al concetto del moderno, in sé alquanto usurato, ma in questo caso esso va preso nel senso secondo cui negli anni Venti del Novecento si ebbe appunto un fondamentale Movimento Moderno, avente tra i vari membri anche il francese Le Corbusier, che molto opportunamente, in mostra, è menzionato come uno degli ultimi eredi dell’insegnamento da lui partito. In realtà, occorrerebbe fare un passo indietro di circa altri cento anni e venire a Leon Battista Alberti, nato nel 1406, cui, in occasione del relativo centenario, si sono tributati omaggi a dire il vero alquanto caotici, non nitidi e concentrati come questo riservato al Palladio. E dunque l’erede diretto risulta meglio trattato rispetto al progenitore. Ma appunto dall’Alberti al Palladio parte una tendenza irresistibile che altra volta mi è piaciuto siglare con un’etichetta scandalosamente anacronistica, quella di Minimalismo. Infatti essi hanno insegnato all’intero Occidente che l’architettura poggia su un numero ridottissimo di elementi primari, il pilastro, che sostiene l’architrave, con spigoloso e rigido angolo retto; o in luogo del pilastro può entrare anche la colonna, ma già meno bene; e certo vi sta pure l’arco, dono prezioso proveniente dall’arte romana. Attraverso una oculata distribuzione spaziale di questi pochi dati strutturali può venir fuori qualsivoglia edificio, ecco la grande lezione congiunta proveniente dai due. Che però, ovviamente, l’hanno applicata in modi alquanto diversi. L’Alberti non poteva non essere ligio ai canoni dell’Umanesimo, e dunque, questa sua concezione della scatola elementare doveva essere rapportata alle misure dell’uomo, venir concepita in modi raccolti e unitari. Il Palladio invece, per questo verso più lanciato verso traguardi ulteriori della modernità, non si sente vincolato al rispetto di quelle auree misure, e dunque tende a prolungare senza limite la scatola, facendone una stecca, per così dire, un edificio pronto a ospitare le complesse funzioni della burocrazia o dell’industria, gli alveari in cui l’individuo deve rassegnarsi ad essere racchiuso. Ma in entrambi i casi alla base di tutto c’è una griglia, una scansione implacabile di orizzontali-verticali.
Naturalmente una mostra dedicata a un architetto non può esibire le sue realizzazioni tridimensionali, deve limitarsi a schizzi e abbozzi, possibilmente autografi, ed è quanto la rassegna vicentina fa con abbondanza. Così, riesce perfettamente possibile seguire la marcia risoluta del Palladio verso il moderno, che qui potremo puntualizzare attraverso alcune tappe. Iniziando con Villa Pisani a Bagnolo, se ne veda in particolare il retro, dove compare appunto la scatola, a pareti lisce, sgombrate di ogni ornamento, anche Gropius avrebbe potuto firmare un progetto del genere. Palazzo Chiericati, poco dopo, segna un passo più avanti, a favore della nudità di una griglia strutturale, al punto che nelle ali dell’edificio scompare la riempitura muraria, il pretesto di continuare il corpo centrale dell’edificio con due verande aperte consente all’architetto di lasciar cadere appunto il riempitivo, e l’ossatura dell’edificio può apparire a nudo, quasi che egli potesse già valersi di pilastri in cemento armato. Un altro dei tratti che il Vicentino eredita dall’Alberti, ed è di nuovo un segno di avanzante modernità, di quella modernità che arriverà a condannare l’ornamento «come un delitto», sta proprio nella riduzione del ricorso a statue ornamentali. Queste ci sono, nella cimasa di Palazzo Chiericati, ma come prolungamenti dello slancio verticale delle strutture portanti, per ribadirlo, piuttosto che per nasconderlo. Ma veniamo alle modalità con cui il Palladio affronta il tema vincolante delle facciate delle chiese, portatrici di esigenze di culto da cui non è facile svincolarsi. Eppure anche in questo caso egli parte da una sorta di scatola essenziale, magari scandita lungo l’intera sua superficie dal motivo di colonne, però agili, simili a putrelle metalliche. E poi, per ricavare sia il timpano della navata centrale, sia quelli delle navate laterali, ovvero per interrompere il dominio dell’angolo retto, il nostro grande progettista inserisce un dimezzamento, un motivo in diagonale, il quadrato insomma viene diviso in due, ma mentalmente l’osservatore può effettuarne un raddoppio, e restituire la totalità dell’insieme. Questo il ritmo di scomposizione e immediata ricomposizione che il Palladio applica ai due gioielli veneziani, S. Giorgio Maggiore e il Redentore. Ma se si vuole ammirare la sua genialità all’opera, senza vincoli utilitari, si vadano a vedere i suoi disegni per illustrare i campi di battaglia, per esempio il dispiegamento delle legioni con cui Cesare andò alla conquista della Gallia. Sono davvero composizioni allo stato puro, estensioni illimitate di tanti moduli minimali che si associano in una grammatica al tempo stesso libera e vincolante.
Andrea Palladio 500 Vicenza Palazzo Barbaran da Porto Fino al 6 gennaio Catalogo Marsilio

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