martedì 29 aprile 2008

Radici protostoriche sul monte Castelon

Radici protostoriche sul monte Castelon
Gianfranco Riolfi
L'Arena, 10 giugno 2007

MARANO. Gli scavi in corso rivelano sorprese

Gli archeologi: un tempio più antico di quello di Minerva
Marano. Dall'epoca romana al medioevo, ma non solo. Dal monte Castelon i primi insediamenti potrebbero risalire addirittura alla protostoria, la parte di preistoria che comprende l'età del Rame e quella del Ferro, e in futuro le ricerche potrebbero proseguire anche in questo senso.
Il dato è emerso nel corso di una conferenza pubblica che si è svolta venerdì sera nella sala consiliare del municipio, per fare il punto sullo stato degli scavi, iniziati nel marzo scorso, per iniziativa di Soprintendenza ai beni archeologici e Comune di Marano, con il contributo di Banca della Valpolicella, sulla scorta dei ritrovamenti e degli scritti dello studioso veronese Girolamo Orti Manara.
«Quello del monte Castelon», ha detto al pubblico stipato in sala, l'archeologo Luciano Salzani, «è il principale progetto per l'età romana della Soprintendenza. Mi auguro che sia confermata l'esistenza di un tempio protostorico sul quale sarebbe poi stato edificato quello romano».
Una speranza, quella del soprintendente, che ha trovato parecchi riscontri nel corso degli scavi, eseguiti a cura della Società archeologica padana. «I materiali rinvenuti per il 95% si riferiscono all'età protostorica», ha spiegato Brunella Bruno dela Soprintendenza archeologica. «E' quindi possibile che a Marano la figura di Minerva abbia sostituito altre figure femminili oggetto di culto in età preromana. La stessa festa della Madonna, che si tiene oggi nella vicina chiesetta di Santa Maria Valverde, richiama a riti che hanno un legame con il culto a Minerva. L'ipotesi di una successione è pertanto estremamente possibile. Dovremo riprendere e approfondire gli studi sui culti, ma anche sugli Arusnates, popolo di origine reto-etrusca, insediato in Valpolicella».
Il tempio a Minerva è stato edificato presumibilmente in epoca augustea da artigiani arrivati dal centro Italia. «La tecnica di costruzione utilizzata», ha sottolineato Furio Sacchi, docente di archeologia romana all'Università Cattolica di Milano, «in quell'epoca era molto comune in Italia centrale, ma poco diffusa al nord. Si tratta però di una tecnica che trova confronto con alcune parti del teatro Romano di Verona. Credo quindi che le stesse maestranze altamente specializzate, che hanno lavorato in città, siano state ingaggiate da qualche facoltoso per il tempio maranese, abbandonato e distrutto alla fine del quinto secolo dopo Cristo».
Se l'epoca romana è rappresentata sul versante orientale del monte Castelon dall'edificio di culto a Minerva, quella medievale si identifica nel castello, tra pianoro e sommità. «Ma si dovrebbe pensare a più castelli o a un castello che si è molto trasformato», ha detto Fabio Saggioro, docente di archeologia medievale all'Università di Verona. «Anteriormente al tredicesimo secolo, sarebbe ragionevole attendersi in realtà, un villaggio fortificato. Non sappiamo quali siano gli elementi che caratterizzavano la sommità tra decimo e dodicesimo secolo, ma la presenza della torre settentrionale, ricavabile dal catasto austriaco, lascerebbe supporre la presenza di una parte signorile».
Nel corso del tredicesimo secolo si assiste a un forte cambiamento dell'area sommitale del Castelon. Si interviene a più riprese edificando murature, ambienti e potenziando l'aspetto difensivo della struttura. «L'abbandono sembra essere stato repentino», ha concluso Saggioro, «e probabilmente è legato alle vicende di Federico della Scala, che qui aveva il suo centro di riferimento e di potere, bandito da Verona dopo la scoperta della congiura nel 1325».

COLOGNA. Gli scavi del metanodotto portano alla luce un villaggio del IV secolo

COLOGNA. Gli scavi del metanodotto portano alla luce un villaggio del IV secolo
Martedì 19 Giugno 2007, BRESCIA OGGI

Il gas «accende» il medioevo
Tra quelle mura vivevano genti longobarde o gote

Adige-Guà. Gli scavi per il metanodotto aprono una finestra sull’era altomedievale colognese. Ancora una volta la bonifica archeologica durante i lavori di posa del nuovo metanodotto tra Zimella e Cologna ha permesso ai ricercatori di scoprire qualcosa di inedito sulle civiltà del passato che abitarono questa zona del Colognese. Se un anno fa ad affiorare dalla terra furono vasi e anfore dell’età del Bronzo, stavolta gli archeologi hanno riportato alla luce i resti di un villaggio abitato dalla fine del IV fino a tutto il VII secolo dopo Cristo. Quelli furono gli anni dell’occupazione dei Goti e dei Longobardi nel Nord Italia ma è difficile per ora stabilire se il borgo emerso a poche centinaia di metri dall’ex statale 500 fosse abitato da popolazioni barbare oppure da gente autoctona. Una cosa è certa: gli abitanti appartenevano ad un ceto sociale piuttosto basso, non avevano con sé gioielli preziosi né suppellettili decorate. Vivevano un’esistenza umile, probabilmente legata all’agricoltura e favorita dalla presenza di corsi d’acqua.
Al centro del sito archeologico è emersa una strada di ghiaia e ciottoli che correva perpendicolare all’ex statale. Alcune fondazioni di abitazioni sono precedenti alla strada mentre la maggior parte mostra chiaramente una disposizione che segue l’andamento dell’arteria. Nel sito finanziato da «Snam rete gas» sono state infine rinvenute alcune monete in bronzo di epoca tardo-antica sfortunatamente molto consunte. L’identificazione del villaggio non è stata immediata; all’inizio gli studiosi pensavano che si trattasse di fondazioni di una villa di età romana. In seguito l’ampiezza dello scavo e la tipologia dei ritrovamenti hanno fatto cambiare idea agli archeologi. I lavori sono durati un mese e mezzo e hanno interessato un’area di 3mila metri quadri. Sono stati eseguiti da un’equipe di dieci persone della ditta «Malvestio» di Concordia Sagittaria (Venezia). Il responsabile del cantiere era Gianfranco Valle. La Soprintendenza ai Beni archeologici di Verona ha guidato il progetto.
«Siamo molto soddisfatti perché l’estensione dello scavo ci ha permesso per una volta di avere una visione non parziale dell’insediamento - ha commentato la soprintendente Brunella Bruno - È l’unico sito di questo genere scoperto in zona e ci permetterà di ampliare le nostre conoscenze storiche su un’epoca poco conosciuta. Se fosse possibile, vorremmo continuare la ricerca perché siamo certi che l’abitato proseguisse ben oltre i confini entro i quali abbiamo scavato».
Paola Bosaro

BORSO DEL GRAPPA Sotto l'asfalto c'era un ponte di epoca romanica

BORSO DEL GRAPPA Sotto l'asfalto c'era un ponte di epoca romanica
Venerdì, 22 Giugno 2007 IL Gazzettino online
Borso del Grappa
(G.Z.) Ancora una scoperta archeologica nella zona pedemontana. L'altro giorno, durante gli scavi per impianti idraulici in via Misquille a Borso del Grappa, è stato ritrovato un ponte che potrebbe risalire all'epoca romanica o medievale.Naturalmente i lavori pubblici sono stati bloccati ed ora sono all'opera gli archeologi che stanno valutando l'entità del ritrovamento. Si tratta di un ponte della lunghezza di circa tre metri e dell'altezza di almeno due metri e la larghezza, per quanto rimasto, di un metro e mezzo circa. Una buona parte però è ancora sotto terra e solo quando tutto il manufatto sarà alla luce allora si potrà avere un'idea della datazione. La parte rimasta intatta del ponte è in ottimo stato anche se c'è da dire che la parte a nord, nel corso dei secoli, è stata più volte danneggiata.L'importante ritrovamento è stato fatto nel corso di scavi per un progetto di ripristino della funzionalità idraulica della valle Orticella per un importo di 106 mila euro. Si tratta di una zona particolarmente suggestiva proprio a confine tra San Zenone e Borso del Grappa. Il ritrovamento è avvenuto dopo che le ruspe avevano levato l'asfalto dalla strada ed alla profondità di mezzo metro circa ha cominciato ad affiorare qualche pietra e poi lo splendido manufatto. Purtroppo con gli anni, con i continui lavori che si sono susseguiti il ponticello è stato in parte distrutto, ma conserva ancora in buono stato il suo "arco" fatto di grosse pietre lavorate.Si tratta di un ritrovamento molto interessante che va a sommarsi a quello effettuato qualche settimana fa a San Zenone degli Ezzelini. Qui, durante i lavori di posa dei tubi del gas, è stata scoperta una vera e propria necropoli. In entrambi i casi è intervenuta la Soprintendenza dei Beni archeologici che ora sta studiando attentamente, con il supporto dell'Università di Padova, questi due ritrovamenti.

CITTADELLA «Fermate gli scavi del parcheggio»

CITTADELLA «Fermate gli scavi del parcheggio»
Michelangelo Cecchetto
Sabato, 30 Giugno 2007, il GAZZETTINO ONLINE

Interrogazione dell’on. Luigi D’Agrò per evitare di distruggere il patrimonio archeologico sotterraneo

In Campo della Marta finora è stato realizzato il muro perimetrale. Sono previsti 342 box auto

Cittadella
«Chiedo quali urgente iniziative si intendano adottare per evitare che la costruzione di parcheggi sotterranei, utili per i residenti dentro la cinta muraria, possa distruggere un patrimonio così prezioso per Cittadella, meta di innumerevoli turisti». È questa la parte finale dell'interrogazione parlamentare a risposta scritta, presentata dall'onorevole Luigi D'Agrò, vicepresidente del gruppo parlamentare dell'Udc, nella seduta della Camera di giovedì scorso. D'Agrò, bassanese, ha rivolto il quesito al vicepremier e ministro per i beni e le attività culturali culturali Francesco Rutelli ed al ministro per le infrastrutture Antonio Di Pietro.

Ritorna così l'attenzione sul costruendo park interrato nel centro storico della città murata, in campo della Marta. Nelle scorse settimane la notizia lanciata dall'architetto Paolo Brentel, osservando l'area del cantiere dall'alto attraverso il camminamento di ronda, del rinvenimento di antichi tracciati viari della zona che si sovrapporrebbero perfettamente alle antiche mappe. Notizia questa smentita dall'azienda che sta eseguendo i lavori e secondo la quale si tratta solo di corridoi utili al passaggio delle macchine operatrici. Al lavoro nell'area, con vari punti di rilievo, gli archeologi della Soprintendenza. Non si sa se siano stati rinvenuti reperti anche se, considerato quanto trovato durante la costruzione del teatro all'aperto, tutto lascia supporre che il sottosuolo possa riservare sorprese.

L'intervento del parlamentare diventa l'ultima novità in ordine di tempo relativa all'imponente progetto. D'Agrò chiede la massima attenzione affinchè non ci possa essere nella realizzazione dei due piani interrati, sfregio ad eventuali opere d'arte nascoste nel sottosuolo. Fino ad ora del progetto è stato realizzato il muro interrato perimetrale di contenimento alla base del terrapieno interno alle mura. Si prevedono 342 box auto su due piani sotterranei che saranno acquisiti in diritto di superficie, dai residenti in centro storico e da coloro che hanno diritti di proprietà, locazione, usufrutto, possesso ed uso su unità immobiliari dentro le mura. In superficie l'area verde con passaggi pedonali, diventerà punto di aggregazione per la cittadinanza e luogo per manifestazioni raccordata con l'esistente teatro all'aperto e la restaurata ex scuola elementare. Ora non rimane che attendere la risposta dei ministri competenti.

ROSÀ. S. Pietro, miniera di nuove scoperte archeologiche

ROSÀ. S. Pietro, miniera di nuove scoperte archeologiche
Giovedì 12 Luglio 2007 il giornale di Vicenza

Il sito era incrocio d’una centuriazione
È possibile ora ricostruire la vita e gli usi nel VII secolo

Gli scavi effettuati a sud e ad ovest della chiesetta romanica di S. Pietro, che conserva affreschi rinascimentali, hanno permesso di fare altre scoperte e di scrivere un'altra pagina di storia. I risultati della ricerca, finanziata dal panificio Zulian e dal comitato di paese "S. Pietro in Paerno", sono stati esposti nel corso di una riunione voltasi nella chiesetta storica. L'archeologo Paolo Paganotto ha ricordato l'importanza del sito di S. Pietro, all'incrocio di una centuriazione romana di cui restano numerose testimonianze. La frazione si trovava proprio in corrispondenza dell'incrocio fra un cardo e un decumano. Gli scavi effettuati in precedenza hanno fatto registrare la presenza di tre strutture che si sono susseguite nell'arco dei secoli. Prima dell'arrivo di Napoleone, le fondamenta delle chiese e i sagrati venivano usati per la sepoltura dei defunti. Una prima scoperta era stata effettuata durante una campagna di scavi effettuata nel 1994, sotto la direzione di Stefano Tuzzato. Sul lato ovest della chiesa, in corrispondenza dell'ingresso, era emersa una tomba con doppio alveo cefalico che, dai particolari, fa pensare a personaggi di spicco dell'epoca. Una successiva campagna di scavi effettuata sul lato sud, all'interno del cortile della scuola materna nel 2006, ha portato alla luce altre sei sepolture. Lo studio delle ossa, effettuato dalle paleantropologhe Rita Giacomello e Nicoletta Onisto, ha permesso di conoscere alcuni aspetti legati alla vita, all'alimentazione e alle malattie degli abitanti di S. Pietro nel periodo che va dal settimo all'ottavo secolo dopo Cristo. Sono stati individuati gli scheletri di due maschi e di due femmine, oltre a quello di un bambino di due anni, morto molto probabilmente in fase di svezzamento. È stato possibile anche risalire all'età della vita per gli adulti, con un minimo di 30 e un massimo e 75 anni. Sorprendente anche l'altezza, rilevata sempre dallo studio degli scheletri, che toccava un metro e settanta. Longevità e altezza fanno pensare a un'alimentazione ricca e calibrata. Lo stato di conservazione dei denti manifesta una scarsa igiene orale, cosa tipica del tempo, quando non erano in voga spazzolini e dentifrici. Tutti soffrivano di patologia agli arti inferiori e di artrosi alla colonna vertebrale, e questo fa pensare ad una vita faticosa che richiedeva sforzo fisico. Sul cranio di una donna sono state trovate le tracce di un tumore benigno di cui, forse, l'interessata non era a conoscenza. Nella stessa sepoltura sono venuti alla luce due orecchini di fattura bizantina, oltre a un ago per contenere i capelli. Altre novità sulla necropoli risalente al periodo compreso fra il sesto e il nono secolo potrebbero emergere da una seconda campagna di scavi prevista entro la fine dell'anno. M.B.

C’è il Festival della preistoria

L'Arena, Martedì 29 Aprile 2008

L’EVENTO. Il programma prende il via il 4 maggio e terminerà il 7 giugno: momento clou è il convegno del 31 maggio con il professor Broglio
C’è il Festival della preistoria
In occasione del ventennale degli scavi alla Grotta di Fumane, escursioni guidate, tavole rotonde, laboratori, mostre e fumetti

Giancarla Gallo
Un Festival della Preistoria, questa la manifestazione organizzata dal Comune di Fumane per celebrare il ventennale degli scavi archeologici alla Grotta, l’importantissimo sito archeologico di fama europea portato avanti ad opera dell’Università di Ferrara e di Milano. Ieri mattina in Provincia c’è stata la presentazione ufficiale dell’iniziativa che «è il risultato di un riuscito connubio tra arte e bellezze naturali del nostro territorio», ha spiegato il vicepresidente Antonio Pastorello. «Questo Festival aiuterà a rendere nota al grande pubblico la grotta di Fumane», è intervenuto il sindaco Mirco Frapporti facendo seguito all’intervento di Marco Persiani, ricercatore universitario di Ferrara: «Si tratta di un giacimento», ha spiegato, «fondamentale per lo studio dell’evoluzione dell’uomo. L’università di Oxford ci ha aiutato nella datazione dei reperti e possiamo parlare con certezza di 35mila anni fa». Luciano Salzani, direttore del nucleo operativo della Sovrintendenza regionale, ha parlato di «occasione per tutti, per le scuole in particolare, di condividere preziose conoscenze».
Il festival si aprirà ufficialmente sabato 31 maggio alle 9 nella sala del Consiglio del municipio con un’interessante tavola rotonda sugli ultimi ritrovamenti fatti nel sito archeologico e con la consegna della cittadinanza onoraria al professor Alberto Broglio, docente dell’Università di Ferrara. Seguirà la visita guidata alla Grotta, tenuta dallo stesso docente e dai suoi collaboratori. Domenica 1° giugno a Molina e nella Valle dei Progni saranno organizzati laboratori per sperimentare i modi di vita dell’uomo preistorico. A partire dalle 12 degustazione di prodotti tipici, con prenotazione (info@prolocomolina@tiscali.it; al telefono: 045-7720021); dalle 14 «Viaggio nella preistoria» in piazza a Molina, attività e laboratori su aspetti di vita dell’uomo primitivo nelle varie epoche preistoriche; laboratori di tiro con l’arco, scheggiatura della selce, costruzione di strumenti ma anche sperimentazione di pittura e incisione sulla pietra, lavorazione dell’argilla, della pelle, del legno, laboratorio del colore. Saranno inoltre aperte alcune interessanti mostre sugli scavi alla Grotta e saranno esposti lavori eseguiti dalle scuole.
L’iniziativa del «Festival della Preistoria» è sostenuta anche da numerosissimi enti, associazioni e volontari che hanno dato patrocinio, collaborazione o messo a disposizione idee e risorse: la Provincia di Verona, la Comunità Montana e il Parco Regionale della Lessinia, il Museo Civico di Storia Naturale di Verona, il Comune di Legnago, il Centro Ambientale e archeologico di Legnago, l’Università degli Studi di Ferrara, il Consorzio Pro Loco Valpolicella, la Pro Loco di Molina, il Museo Paleontologico e Preistorico di Sant’Anna D’Alfaedo, il Museo Preistorico di Molina di Ledro, il Centro di Documentazione per la Storia della Valpolicella, il Gruppo guide di Grotta di Fumane, l’archeologo Alberto Castagna.
Protagonista è ovviamente la Grotta di Fumane, ma si andranno a conoscere e valorizzare altri importanti siti preistorici della provincia. Saranno effettuate visite guidate al Riparo Tagliente e al Ponte di Veja.

lunedì 28 aprile 2008

VICENZA Scavi d’oro, reperti invisibili

VICENZA Scavi d’oro, reperti invisibili
Gian Marco Mancassola
Venerdì 27 Luglio 2007, Il Gazzettino di Vicenza

IL CASO. La commissione Territorio cerca di far luce sul cantiere infinito che ha interessato la zona di contrà Barche, a lungo fermo per ricerche archeologiche

Lavori pagati 184 mila euro, mai recuperato nulla
La zona era già stata scavata: perché fare nuove indagini?


Quasi 200 mila euro pubblici spesi per scavi archeologici che i vicentini non hanno mai potuto toccare con mano. Contrà Barche resta una ferita aperta nel centro storico: l’infinito cantiere per il teleriscaldamento,interrotto per mesi a causa del rinvenimento di reperti archeologici, continua a provocare dure polemiche.
L’interruttore che riaccende i riflettori sulla telenovela delle Barche e delle vie che gravitano intorno alla Basilica e al teatro Astra è stato attivato da una relazione dell’amministrazione comunale firmata dall’assessore alla Mobilità Claudio Cicero e consegnata al presidente della commissione Territorio, il diessino Ubaldo Alifuoco.
Il rapporto di palazzo Trissino fa luce su due aspetti chiave: scavi archeologici e sorveglianza sono costati 184 mila euro; nonostante i forti ritardi, conteggiati in una proroga di 135 giorni, all’impresa esecutrice «non è stata applicata alcuna penale, ma è stato sottoscritto un accordo bonario a compensazione».
La replica è contenuta in un’interrogazione presentata da Alifuoco, con l’appoggio della forzista Fiorenza Dal Zotto e dell’aennista Giuseppe Tapparello. «Pare inaccettabile - scrivono i consiglieri - che, in periodo di indispensabili contenimenti dei costi, si sia spesa la rilevante cifra di 184.792 euro per inutili scavi archeologici ed ancora più inutili sorveglianze archeologiche. E ciò considerando il fatto che la zona era già stata ampiamente scavata in passato per il passaggio di altri sottoservizi. Ed è lecito domandarsi se, dovendo nuovamente bucare il terreno nella zona, dovremo ancora spendere centinaia di migliaia di euro senza conoscere i risultati». Il paradosso, infatti, è che una volta completati gli scavi (che il Comune ha sempre sottolineato essere stati imposti dalla Sovrintendenza archeologica), è stata autorizzata la copertura con asfalto e sampietrini. Alifuoco e colleghi chiedono anche di sapere «per quale motivo il Comune non sia in possesso della documentazione archeologica che giustifichi l’ingente esborso di 184 mila euro che ricade sulle spalle dei cittadini vicentini».
L’ultimo affondo punta la lente sulla nuova pavimentazione di contrà Piancoli e contrà Cabianca: «Desidero sapere - annota Alifuoco - se l’assessore non ritenga fuori mercato il prezzo di 59,50 euro per metro quadrato pagato per le discutibilissime betonelle autobloccanti al posto dei previsti blocchetti in profido.
Tanto più se si considera anche il fatto che la strada oggetto dell’intervento si sta già vistosamente dissestando in più punti denunciando inequivocabilmente sia un’errata scelta del materiale che una scadente posa in opera». Continua a sollevare polemiche il cantiere per il teleriscaldamento che aveva interessato la zona di contrà Barche e le vie orbitanti intorno alla Basilica. I lavori erano stati a lungo sospesi per scavi archeologici costati 184 mila euro: ma nulla è oggi visitabile né visibile

Valpolicella da salvare Un appello al ministro

Valpolicella da salvare Un appello al ministro
Giancarla Gallo
Giovedì 2 Agosto 2007, Il Gazzettino online

Un gruppo di associazioni scrive a Francesco Rutelli per sollecitare un intervento finalizzato a difendere il territorio

Sotto accusa gli interventi edilizi nella zona di Negrar e i previsti impianti sportivi di fronte a Villa Bertoldi
LA PROPOSTA. Un disegno di legge della senatrice De Petris lega la Valpolicella alle Cinque Terre e alla Val d’Orcia
È fra i venti tesori da tutelare

«E’ l’arroganza a distruggere la Valpolicella!». Così inizia la lettera, inviata per raccomandata, al ministro per i beni e le attività culturali Francesco Rutelli e sottoscritta dall’associazione Salvalpolicella nella persona del suo presidente, Pieralvise Serego Alighieri, da Sandro Campagnola del sito www.teladoiolavalpolicella.it, da Giorgio Massignan di Italia Nostra, da Averardo Amadio del Wwf, da Legambiente con Michele Bertucco e dal proprietario della quattrocentesca Villa Bertoldi di Negrar, Michele Stefani.
Nella lettera, che è stata inviata per conoscenza anche al ministro dell’ambiente Pecoraro Scanio, si chiede espressamente aiuto contro chi non ama la Valpolicella e contro chi la amministra continuando a deturparla. «L’arroganza di questi amministratori che, in nome dell’investitura ricevuta dal popolo, fanno quello che vogliono, è ormai insopportabile», si legge nella lettera, che termina così: «E’ questo atteggiamento che rovinerà definitivamente la Valpolicella. Ministro, ci dia una mano a fermare questa orda incombente».
La missiva è corredata da foto esplicite del comune considerato il più rovinato dall’edilizia, ovvero Negrar: Villa Verità, la collina di San Vito, Montericco, la Costeggiola, Toari di Torbe e, soprattutto, Villa Bertoldi, balzata alla ribalta perché davanti ad essa sorgeranno degli impianti sportivi, sul cono visuale della villa stessa, che risale al Quattrocento.
E proprio contro Negrar puntano il dito i firmatari della lettera, che parlano di «speculazione edilizia selvaggia» ed enumerano i numerosi problemi della viabilità e del traffico, «la sparizione di intere colline riempite di nuove abitazioni», che hanno portato il Comune di Negrar in pochi anni da 10 mila a quasi 18 mila abitanti.
Un paese, è la loro sintesi, che sempre più assume la caratteristica di un quartiere dormitorio di Verona.
«Poco tempo fa lei parlava di "assistere in silenzio ad un nuovo sacco del territorio italiano"», si rivolgono a Rutelli. «Ebbene qui assistiamo (non proprio in silenzio) al sacco della Valpolicella. Le logiche amministratori-business sono supercollaudate».
Ma l’accusa che viene ritenuta più grave riguarda proprio l’intenzione, da parte del comune negrarese, di realizzare impianti sportivi davanti alla villa veneta, e la cessione da parte di un privato di un vigneto in cambio della possibilità di costruire nuove case su terreno agricolo: uno scambio che i firmatari della lettera ritengono poco vantaggioso per la cittadinanza. La Valpolicella è uno dei venti territori italiani da salvare, secondo il disegno di legge presentato dalla senatrice dei Verdi, Loredana De Petris, mirato alla valorizzazione e alla salvaguardia delle aree rurali e di pregio ambientale. Accanto alla Valpolicella ci sono zone celebri come le Cinque Terre, la costiera Amalfitana, la Val d’Orcia, che registrano scempi o rischi di deturpazione, opure sono abbandonate.
Un dato la dice lunga sulla situazione: negli ultimi quindici anni la superficie agricola italiana si è ridotta di più del 20 per cento, passando da 15 milioni di ettari a 12 milioni complessivamente, dove i tre milioni di differenza sono stati guadagnati dalla cementificazione o dalla desertificazione. «Ormai si assiste impotenti alle trasformazioni del territorio», è il grido di dolore lanciato dalla senatrice De Petris. Lo stesso ministro Francesco Rutelli di recente ha denunciato «lo sfregio al territorio italiano», citando anche la Valpolicella. Gli hanno fatto eco scrittori e poeti, che si sono schierati in difesa dell’ambiente, che urgentemente va protetto; fra tutti il poeta trevigiano Andrea Zanzotto, che bene ha stigmatizzato la situazione.
Zanzotto, infatti, dice che una volta c’erano i campi di sterminio, ora lo sterminio dei campi. La valorizzazione del paesaggio rurale (e quindi della produzione agricola tipica) ha come conseguenza un nuovo sviluppo economico.
Nella relazione, che porta la firma della senatrice De Petris, si legge: «L’offerta integrata di risorse del territorio, che si incentra sulla conservazione attiva e non sul consumo irreversibile, rappresenta oggi l’unica alternativa effettivamente praticabile in molte realtà del nostro Paese, altrimenti destinate al degrado urbanistico o all’abbandono».
Il disegno di legge, costituito da nove articoli, prevede modifiche al «Codice dei beni culturali e del paesaggio», in quanto inserisce tra le aree protette una nuova categoria, cioè il territorio che supporta l’agricoltura tipica e di qualità, con tutta la varietà di prodotti tipici a denominazione d’origine, in particolare i comprensori caratterizzati da vitigni e coltivazioni biologiche. Lo scopo è quello di tutelare meglio i 159 riconoscimenti comunitari già assegnati a Dop (denominazione d’origine protetta), i 477 vini nazionali di qualità e circa un milione di ettari riservati appunto a produzioni biologiche certificate.
Insomma la salvaguardia e la tutela del paesaggio e del territorio può diventare, se ben gestito, una notevole fonte di reddito e di ricchezza, oltre che input per un turismo intelligente. Altrimenti la strada è aperta alla speculazione. G.G.

Valpolicella. «Non devasteremo il nostro territorio»

Valpolicella. «Non devasteremo il nostro territorio»
Camilla Madinelli
L’Arena 3/8/2007

«Al ministro Rutelli ho già scritto io» : reagisce così, a botta calda, il sindaco di Negrar Alberto Mion alla notizia che un gruppo di associazioni ha spedito al vice presidente del consiglio un lettera-appello lamentando la cattiva gestione del territorio della Valpolicella e invocando un intervento del governo.
«Al ministro ho inviato da tempo il masterplan», spiega Mion, «cioè il piano di riqualificazione redatto per dare un volto nuovo al capoluogo e per inserire il tanto contestato intervento dei nuovi campi sportivi in un'ottica generale di miglioramento. Sono certo che Rutelli, amministratore per lunghi anni, saprà apprezzare il nostro lavoro; a breve poi illustreremo il piano anche ai cittadini, affinchè condividano con noi amministratori il futuro di Negrar».
Ed è proprio al futuro che il sindaco Mion vuole guardare, senza dimenticare o negare un passato dalle molte ombre di cui oggi sono ben visibili i segni nel territorio. «Certamente nel passato sono stati fatti molti errori: ricordo che la lottizzazione di Montericco è stata approvata nel 1975 e che altre aree citate nella lettera, come Costeggiola e la collina di San Vito, risalgono agli anni Ottanta. Ma è ora di finirla di associare brutture e decisioni di vent'anni fa al presente. L'attuale amministrazione è stata eletta dai cittadini sulla base di un programma elettorale che prevedeva tre priorità che la dicono lunga sulla voglia di cambiare: realizzazione di interventi finalizzati ad assicurare miglior vivibilità e maggior decoro dell'ambiente; individuazione di un'area idonea e realizzazione di nuovi campi sportivi per il capoluogo; graduale recupero di villa Alberti-ni. Ci stiamo quindi muovendo in coerenza con quanto promesso agli elettori».
Parla sempre al plurale, Alberto Mion. Ci tiene a sottolineare che «le idee e i progetti che stiamo portando avanti non sono del sindaco ma di tutta l'amministrazione» e «dimostrano una spiccata sensibilità verso l'ambiente».
Qualche angolo della Valpolicella è stato rovinato o porta i segni di scelte infelici? Continuare a girare il coltello nella piaga, sostiene Mion, non fa bene alla Valpolicella e ai numerosi operatori economici, dal turismo all'enogastrono-mia alla viticoltura, che cercano con le amministrazioni di promuovere il territorio.
«Ora mi chiedo: dov'erano queste associazioni ambientaliste quando sono stati approvati i vecchi strumenti urbanistici? Notiamo una certa incongruenza tra l'altisonanza di certe dichiarazioni e il basso profilo delle proposte concrete. E che dire del proprietario di Villa Bertoldi, firmatario del documento, che da trent'anni ha lasciato nel più completo abbandono la struttura?» Poi Mion rincarala dose: «Nessuno dei firmatari è residente a Negrar: a che titolo pensano di poter rappresentare la cittadinanza e le sue istanze? Solo su un'affermazione sono d'accordo con i sottoscrittori della lettera: quella che l'arroganza rovina la Valpolicella. Parlo dell'arroganza di quelle persone che neppure abitano in valle e pensano di dover insegnare tutto a tutti, amministratori compresi».

Impianti sportivi al posto dei vigneti
Al centro della polemica tra l'amministrazione e le associazioni c'è da tempo la realizzazione dei nuovi impianti sportivi del capoluogo nelle vicinanze della storica villa Bertoldi. Il Comune aspetta dalla Regione Veneto, dal giugno 2005, l'approvazione di una variante per destinare un'area agricola a zona servizi e realizzarci i nuovi campi da gioco: 26 mila metri quadrati oggi coltivati a vigneto ospiterebbero un campo da calcio regolamentare, uno di allenamento e un campo da tamburello; inoltre c'è spazio anche per tribune armonizzate con l'ambiente, spogliatoi e parcheggi sotterranei, percorso pedonale e ciclabile.
Il Comune ha stipulato un accordo con un privato che prevede in cambio della cessione dell'area l'utilizzo di 13 mila metri quadrati a fini residenziali e abitativi. «Nessuno dei firmatari della lettera però ha mai chiesto di vedere i progetti», sostiene il sindaco Mion.
Dal canto suo l'assessore allo sport Valentino Viviani aggiunge: «Negrar ha bisogno di nuovi impianti sportivi e crediamo profondamente nell'importanza di questo progetto, che riguarda l'attività sportiva e la sua valenza sociale e ricreativa. La localizzazione è stata studiata a fondo e il progetto ha preso in considerazione ogni minimo aspetto per essere il più rispettoso possibile dell'ambiente e della zona adiacente alla villa».

“Giotto e gli Scrovegni" finiranno sommersi". Allarme a Padova per il progetto di un nuovo auditorium

“Giotto e gli Scrovegni" finiranno sommersi". Allarme a Padova per il progetto di un nuovo auditorium
La Stampa 28/8/2007

Ce la giochiamo, sospira. «L'altro giorno è piovuto e si è allagato tutto. Era già successo, ma fino a un paio d'anni fa ci volevano due giorni di scrosci, uno solo fino all'anno scorso, stavolta son bastate due ore». La laguna, lì all'ingresso della Cappella Scrovegni, un luogo del sogno per Padova. Visto che non esistono colori più squillanti, Fernando De Simone lancia l'allarme rosso. Lui è un architetto membro di un gruppo di lavoro norvegese che ha realizzato 1200 opere sotterranee, fra cui il tunnel stradale più profondo del mondo. Garantisce che il terreno non assorbe più e il progetto di costruire un auditorium sotterraneo dall'altra parte del canale Piovego, presso il terminal dei bus, esporrebbe a rischi letali, perché si formerebbe un'insuperabile barriera «underground» che rimanderebbe indietro l'acqua, sulle fondamenta della cappella.
Una diga.
Peggio «I muri isolanti diventeranno una diga che respingerà verso la sponda opposta l'acqua sotterranea del canale che ora si distribuisce sotto i due argini. Bisogna tener presente che Padova è attraversata da tre grandi estensioni di acqua termale, un'area superiore alla città stessa e diffusa in quantità. Le due pozze sul pavimento della cappella, dopo un semplice temporale, sono il segno che il sottosuolo è talmente imbibito d'acqua da non riuscire più ad assorbirla normalmente. Ed è un segno pessimo. Inoltre, la curva che fa il Piovego nel tratto fra la stazione delle corriere e Porta Portello contiene il 70% del totale delle acque, la cui pressione viene arginata dalle fondamenta, molto profonde, delle numerose costruzioni esistenti o in fase di realizzazione».
Dunque, osserva: «Se l'auditorium sarà 15 metri sotto terra, cui si devono sommare altri 20 di fondamenta, si creerà un nuovo sbarramento sotterraneo, un'ulteriore diga che rimanderà l'acqua verso il centro storico, già in difficoltà». Quanto di peggio, insomma: ma non è una visione catastrofica? Mica tanto, ribatte l'architetto: «Dalla lettura di tre carte geologiche scritte da studiosi dell'università di Padova si può ricavare che questa situazione potrebbe creare un effetto domino con disastri facili da ipotizzare».
Già in un passato non remoto la sorte dei 38 riquadri in cui Giotto raccontò le storie di Maria e di Cristo aveva provocato serie inquietudini e nell'alta cappella par di udire la voce del professor James Beck, storico dell'arte del Rinascimento con cattedra alla Columbia University di New York, quando, nel 2001, puntava il dito sui pericoli dell'acqua.
D'accordo, l'attenzione è giusta, «e non guasta mai che l'opinione pubblica non sia distratta, ma matura», osserva Vittorio Iliceto, geologo e docente di fisica terrestre all'Università di Padova. Tuttavia, osserva, quello su cui si polemizza «è una questione antica. «Il problema non è tanto la cappella quanto il cenobio: ogni tanto va sotto, ma esiste un sistema di pompe, funziona e risolve.
Gli affreschi non corrono rischi, alti un metro sul piano campagna e almeno 4 o 5 sulla falda. Certo, è auspicabile che pure il cenobio venga bonificato, una volta per tutte». Sui rischi che rappresenterebbe l'auditorium il professore commenta: «In tutto il mondo ci sono costruzioni in falda, che vanno giù 10 o 20 metri. Certo, vanno fatte come si deve, e il progetto dell'auditorium è ovvio che debba essere studiato. Che c'è il canale lo vede chiunque e che, se scavano, trovano l'acqua è fuori discussione. Ma uno studio idrogeologico serio e la tecnologia risolvono. Infine, il canale fa da barriera e ritengo inesistente una correlazione fra auditorium e cappella, che non dovrebbe trarre svantaggio».
Sotto terra
Nessuno ha abbandonato a se stesso niente, garantiscono in Comune, ma la cappella è seguita da uno staff di architetti. E questo dovrebbe rassicurare. Ciò che non rassicura è l'idea di costruire sotto terra un auditorium: secondo molti, fra cui il maestro Claudio Scimone, direttore dei Solisti Veneti, è costosa e di scarso «appeal». Naturalmente la scelta del sito era stata preceduta da un dibattito serrato. Pareva che Prato della Valle fosse una sede naturale per la musica. Ha prevalso la suggestione del sottosuolo. Alberto Cecchetto ha vinto il concorso e alle spalle si è lasciato un gruppo di nove, fra cui Klaus Kada e Arata Ysozaki. E la cappella Scrovegni? Speriamo che non ce la giochiamo.

ARTE NASCOSTA. Vicenza ha un tesoretto sepolto in buie cantine

ARTE NASCOSTA. Vicenza ha un tesoretto sepolto in buie cantine
Venerdì 31 Agosto 2007 il Giornale di Vicenza

Molte domande sul perché tanto patrimonio riemerso dalla storia non possa essere pubblicizzato e messo a disposizione del pubblico

Ritrovamenti e donazioni rimaste sempre nell’ombra costituiscono di fatto un “museo che non c’è” della nostra città
Il medagliere: circa 30 mila pezzi d’epoca romana, medievale e non solo, tenuti nei cassetti
Alcuni mosaici rinvenuti durante scavi sono ancora nei sotterranei di Padova in attesa di catalogazione
Vicenza in effetti poggia su fondamenta romane: la Piazza è alta per questo


Roberto Luciani
C’è un tesoretto che magari non farà ingolosire il ministro Padoa-Schioppa ma che di sicuro farebbe la felicità di turisti, studiosi e, perché no, pure di tanti vicentini.
È il tesoretto delle 30 mila fra monete e medaglie conservate nei magazzini del Museo civico cittadino nonché di tutti quei reperti - come ad esempio le 300 anfore ritrovate durante gli scavi di contrà Mure Pallamaio o i reperti provenienti dal Teatro Berga - mestamente accatastati nei sotterranei di palazzo Chiericati o in qualche cassa nei chiostri di S. Corona. In attesa per la maggior parte di una catalogazione e tutti di uno spazio espositivo che probabilmente non arriverà mai. Con tanti saluti anche alla memoria e alle radici.
IL MUSEO CHE NON C’È. Si fa presto a dire che Vicenza non dovrebbe essere solo Palladio. La storia del medagliere è annosa ed emblematica. Già sei anni fa se ne parlava. Un patrimonio splendido e importante di circa 30 mila pezzi, talora rari se non unici, d’epoca romana, medievale, gota, bizantina, veneziana e non solo. Proveniente gran parte da donazioni e anche da scavi, solo per 2000 di questi si è riusciti a fare uno studio approfondito, come conferma la pubblicazione dell’opuscolo “Storia della Moneta a Vicenza”. Esposti per qualche tempo, sono però presto ritornati anche loro nei cassetti, compresi i 94 denaretti medievali donati dal commendatore Gaetano Rossi di Piovene con la disposizione che fossero visibili a tutti. Un museo virtuale. Stessa sorte per le oltre mille medaglie papali catalogate e illustrate dai ricercatori Renato Zironda e Armando Bernardelli, e raccolte in uno splendido volume in carta patinata dal titolo “Il medagliere dei Musei civici di Vicenza. Le medaglie papali”. Potranno essere consultate solo dai ricercatori e previa domanda scritta, inutile cercarle nelle sale museali. Sottratti agli occhi del turista e dei vicentini. Per non parlare degli eccezionali reales de a ocho o “maltagliati” spagnoli d’argento delle zecche sudamericane di Lima e Potosi. Rinvenuti agli inizi del secolo scorso a Gambellara e, pare, donati con lettera dallo Stato al Museo civico di Vicenza, sono stati trasferiti quasi d’imperio negli anni ’90 alla collezione Cà d’Oro di Venezia senza essere mai transitati in una bacheca berica. Le domande allora sorgono spontanee. A cominciare da quella se chi ha richiesto tale trasferimento avesse in realtà i titoli per farlo e per spostarle da Vicenza. Ma perché non organizzare una sala espositiva al riguardo, vista la presenza di un esperto numismatico nella pianta organica (il dott. Bernardelli) e del direttore scientifico Zironda? E perché, ancora, non trasformare questi progetti sporadici, realizzati benissimo dai due esperti di cui sopra grazie anche all’intervento delle Fondazioni bancarie, in una attività organizzata e continuativa, che spieghi finalmente cosa c’è nei cassetti?
Dubbi e domande, poi, sorgono spontanee anche nelle sale della pinacoteca, dove, nelle giornate torride di questa estate, la temperatura raggiungeva i 35-40 gradi per mancanza di aerazione tanto da rendere necessario un cartellino di avvertimento per i visitatori e, pare, pure qualche fazzoletto zuppo d’acqua per non svenire. Chiusa al pubblico la sezione medievale - pare per infiltrazioni - nelle 23 sale, fra le quasi 100 tele esposte, colpisce la mancanza di una sezione moderna. Il viaggio si ferma all’800. Ma dov’è finita allora la collezione Neri Pozza? Per non parlare di quella Vicenza Romana che sopravvive sconosciuta nei sotterranei cittadini e di palazzo Chiericati. Eppure basta recarsi al Museo diocesano e in Cattedrale per rendersi conto di un’altra realtà.
E LE SOPRINTENDENZE? Batti un colpo se ci sei, verrebbe da dire. Soprattutto per quanto riguarda la Soprintendenza dei beni archeologici di Padova. Nei Quaderni archeologici della Regione, editi dal 1985 ad oggi in collaborazione con l’Ente, su Vicenza città c’è davvero pochissimo. E quasi nulla riguardo all’epoca romana. Eppure rinvenimenti importanti ne sono stati fatti, basti pensare agli scavi dei Filippini e di S. Biagio, in cui sono state riportate alla luce domus con fontane e giardini, e a quelli di via Mure Pallamaio. «In effetti - sottolinea Mario Giulianati, presidente della Biblioteca civica - da S.Michele a venire in su Vicenza poggia su fondamenta romane. La stessa piazza dei Signori, anticamente della Ragione, è più alta di diversi metri proprio per questo motivo». Tanto che quando fu rifatta la pavimentazione si scoprirono vestigia che si decise di ricoprire per la mancanza dei soldi necessari - centinaia e centinaia di milioni - per procedere. Cose note e purtroppo occasioni anche turistiche mancate per tentare, come succede nella vicina Trento, un recupero dell’antica Vicetia articolato e fruibile dai visitatori. Ciò che purtroppo non si riesce comunque a vedere è tutto il materiale scavato e affidato alla Soprintendenza. Copioso e probabilmente anche di pregio, come ad esempio alcuni mosaici.
Dovrebbe essere ancora nei sotterranei di Padova in attesa di catalogazione. Ed il condizionale vale anche per la tipologia dei reperti, visto che dagli uffici patavini, contattati telefonicamente, non si ha comunicazione di documentazioni pubbliche al riguardo. È vero che il Veneto è un vasto cantiere archeologico, però fa effetto trovare, sui quaderni di cui sopra, una vasta produzione di articoli sulle altre province.
Non resta allora che attendere.
Sperando magari di riuscire a vedere un giorno esposte, almeno su qualche catalogo, queste testimonianze del nostro passato. Certo è che se turisticamente è duro vivere di solo Palladio, figurarsi tirare avanti senza memoria, come una cittadina qualsiasi dell’Oklahoma.

ARZIGNANO. Assemblea contesta il progetto, Tutti contrari al nuovo elettrodotto

Il Giornale di Vicenza, Lunedì 28 Aprile 2008

ARZIGNANO. Assemblea contesta il progetto, Tutti contrari al nuovo elettrodotto
Il progetto dell’Enel ha un alto impatto ambientale, non sarebbe necessario ma rischioso per la salute

Nicola Rezzara
L'impatto sull'ambiente e sulla salute dell'elettrodotto progettato dall'Enel attraverso Trissino, Arzignano e Nogarole è stato al centro dell'attenzione nel convegno “Campi elettromagnetici, principio di precauzione”, organizzato dal comitato di protesta nel salone delle materne di Costo.
Di fronte a 150 uditori, in maggior parte abitanti di Tezze, Restena e Costo - le frazioni arzignanesi che dovrebbero ospitare i tralicci - l'architetto Massimo Follesa, il professor Angelo Levis e l'avvocato Francesco Vettori hanno sottolineato le lacune dello studio di impatto ambientale presentato dalla compagnia elettrica. Erano presenti alla serata anche il senatore leghista Paolo Franco e gran parte del consiglio comunale, con vari assessori e consiglieri di maggioranza e opposizione. Il progetto per l'alta tensione è stato rispedito al mittente ad inizio mese dalla commissione per la valutazione dell'impatto ambientale della Provincia con la richiesta di nove integrazioni.
Follesa ha evidenziato l'elevato impatto paesaggistico dell'impianto in zone tutelate sia dal piano di assetto territoriale comunale che da quello provinciale. Levis, membro della commissione oncologica nazionale, ha sottolineato i possibili effetti sulla salute dell'elettrosmog, ripercorrendo le azioni legali che negli ultimi anni hanno riguardato i tralicci elettrici, mentre Vettori ha messo in dubbio la necessità dell'impianto e contestato la serietà dello studio di impatto ambientale allegato al progetto.
Sia il sindaco di Arzignano Stefano Fracasso che l'assessore provinciale Andrea Pellizzari hanno sottolineato la competenza della commissione Via, che ha chiesto maggiori chiarimenti all’Enel. Nel finale il presidente del comitato Gaetano Palma ha sottolineato polemicamente l’assenza in sala della Provincia: «Ringrazio la commissione tecnica che ha valutato il progetto con serietà, ma a parte l'assessore Andrea Pellizzari nessun altro politico della Provincia è venuto questa sera. Ho invitato sia gli assessori che i consiglieri, ma a parte un paio di mail di scuse, gli altri non si sono nemmeno preoccupati di rispondere».

venerdì 25 aprile 2008

I Veneti preromani nel contesto europeo

I Veneti preromani nel contesto europeo

'Veneti' ce ne furono non solo nell'Adriatico settentrionale ma anche in Armorica (Bretagna), sulle Alpi (Lago di Costanza), alla foce della Vistola (Prussia occidentale), nel Lazio e anche in Asia Minore, ma gli unici sul conto dei quali si sappia qualcosa - per quanto poco - di storicamente fondato sono i veneti del Veneto. - Quanto alla presunta origine microasiatica dei veneti - essi sarebbero venuti dalla Paflagonia guidati da certo Antenore, troiano, dopo la caduta di Troia proprio come i romani sarebbero arrivati nel Lazio da Troia guidati da Enea, secondo l'Eneide di Virgilio - si tratta di un'invenzione lanciata inizialmente da Plinio, che a sua volta faceva riferimento a Catone, poi continuata da Livio in un clima di esaltazione politica della grandezza di Roma.
Come dappertutto in Europa, e non solo, la genesi delle diverse nazioni e culture, quali grosso modo sono riconoscibili ancora adesso, risale alla dominazione del continente da parte di signori indoeuropei che si imposero su popolazioni paleoeuropee non certo tutte uguali. Dal punto di vista culturale ed etnico il Veneto arcaico - fino, grosso modo, al secolo XI - apparteneva all'ecumene centroeuropeo, del quale la Padania viene a essere il meridione. Il tipo umano predominante era ed è quello alpino (cioé: il tipo alpino della razza bianca o europide), che non è quello mediterraneo e neppur quello nordico o quello balcanico. Esso assomiglia piuttosto a quello prevalente nel Baltico e, in generale, nell'Europa Nord-orientale, e anche le lingue pre-venete/pre-indoeuropee parlate nel II millennio dovevano essere di tipo finnico-uralico. Incomincio perciò con dare un'idea di quali potessero essere le caratteristiche del Veneto pre-veneto. - Sia fatto l'appunto che fin dai tempi preistorici le genti alpine ebbero come caratteristica la laboriosità, la serietà nell'impegno preso e l'ingegno tecnico; e questo si riflette nei tempi moderni quando le zone trainanti dal punto di vista economico (economia reale, non virtuale all'americana) sono quelle dove c'è un forte elemento alpino: quindi la Padania, l'Austria, la Germania meridionale, la Francia centrale. Anche in Spagna, le zone più forti in questo senso, tipo la Catalogna, rivelano un'importante presenza genetica alpina. Viceversa, gli alpini, di massima, furono genti chiuse, poco aggressive e anche poco portate alla cultura astratta e alla creazione artistica brillante. Non a caso i razziologi dell'anteguerra tendevano a dimostrare una scarsa stima per le genti alpine - salvo vedersi costretti a contraddirsi spesso, obbligati dall'evidenza.
Gli abitanti pre-veneti della pianura veneta furono i cosiddetti euganei, sul conto dei quali non si sa praticamente niente, mentre le zone montagnose erano abitate dai reti, che si estendevano in tutto il Tirolo fino alla Baviera meridionale. Queste due popolazioni dovevano essere virtualmente identiche e si dice che con il sopraggiungere dgli indoeuropei gli euganei siano fuggiti e si siano attestati sulle montagne assieme ai reti. È invece molto più probabile che la stragrande maggioranza degli euganei siano rimasti dov'erano e abbiano continuato la loro vita come vassalli dei veneti indoeuropei dei quali, un poco alla volta, essi adottarono la lingua. I reti continuarono ad avere un'esistenza politicamente indipendente per molto tempo - fino al I secolo, e dal punto di vista culturale anche dopo. In riguardo, su di loro ci sono delle informazioni, che ci lasciano intravvedere come dovettero essere anche gli euganei.
Già nei secoli XVIII - XI nel Veneto c'era un'importante industria del bronzo, che veniva importato grezzo dal Trentino e lavorato localmente in diversi luoghi. A quei tempi venivano già fatti i bronzetti votivi tipicamente veneti che si continuarono a fare anche dopo l'avvento degli indoeuropei - non a caso, nel Veneto, gli ex-voto furono sempre di bronzo e non di ceramica come nel resto dello spazio geografico italico. L'industria del bronzo continuò a essere, anche in tempi romani, particolarmente importante nel Veneto: le cosiddette situle, vasi di bronzo ornati di scene quotidiane, di contro agli stili geometrici in vigore in quasi tutto il resto dell'Europa, incominciano a essere prodotte nel VI secolo e rappresentano una continuazione ed evoluzione di un artigianato del bronzo già in pieno rigoglio agli inizi del II millennio. Già in tempi preindoeuropei, è chiaro, c'era una florida attività artigianale e commerciale.
I reti, lo si è già detto, ci danno un'idea di come potesse essere il Veneto pre-indoeuropeo nel suo insieme. Dopo l'arrivo dei veneti, fra reti e veneti ci fu un nteressante intercambio culturale. I reti (e quindi probabilmente gli euganei) utilizzavano la tecnica architettonica di fabbricare case semiinterrate usando blocchi di pietra (se ne trovano resti in tutta l'Europa alpina), adottate anche dai veneti. In margine alle zone indoeuropeizzate, i reti - che erano veneti pre-veneti - continuarono ad avere una fiorente società ancora in tempi romani. Valpolicella, nel I secolo, era ancora un centro retico e centro retico era stata Verona prima della sua celtizzazione, come lo fu Trento. I reti, oltre a ottimi contadini e artigiani, costituivano società fortemente organizzate dove vivo era il senso della proprietà, della casa e della famiglia: qui si intravvedono molte delle qualità che distinguevano i veneti fino a tempi molto recenti. Già molto presto i reti avevano adottato l'alfabeto etrusco e rimangono alcune iscrizioni, di epoca romana. Si tratta di una lingua non indoeuropea, non ancora decifrata (lo si è già detto, probabilmente di tipo uralico). È stato detto che essa presenta affinità con il ligure; ma l'unica affinità di cui si possa essere sicuri è che ambedue erano lingue non-indoeuropee (il ligure era una lingua mediterranea, di tipo, se vogliamo 'etruscoide'). - Dal lato religioso, i reti avevano l'abitudine di accendere grandi fuochi cultuali e i veneti indoeuropei sembra abbiano mutuato queste abitudini. In Lessinia, zona di forte presenza retica, ancora circa un secolo fa si accendevano verso il Solstizio d'inverno dei grandi falò sulle cime dei monti, e i carboni che ne risultavano servivano a proteggere contro il fulmine. A questi fuochi erano anche legate pratiche divinatorie. Fra dicembre e gennaio si bruciavano sterpi per 'aiutare' il Sole nel processo stagionale dell'allungamento delle ore di luce.
Altra fenomenologia arcaica pre-indoeuropea è quella architetturale dei castellieri, grandi costruzioni di pietra a secco e di terra battuta in cima a certe colline, difese da fossati. Fino a tempi romani, in Istria e in Dalmazia, furono luoghi fortificati e di abitazione, ma ne esistevano anche in Tirolo, orientati secondo criteri astrologici, e nella pianura, fino al Garda e oltre (quindi identità, in tempi pre-indoeuropei, fra le genti della montagna e della pianura veneta). C'è chi ha voluto vedere nei castellieri un'influenza mediterranea - né la cosa è impossibile, visto che le genti mediterranee erano dei grandi costruttori in pietra, ma questo è ancora da dimostrarsi.
Il Veneto indoeuropeo esordisce con l'insediamento dei veneti nei secoli XI - X. Si trattava di indoeuropei di ceppo italico, come testimonia la loro lingua, molto simile al latino e della quale incominciano a trovarsi documenti a partire dal secolo VI, scritti in alfabeto veneto, derivato dall'etrusco chiusino (di massima, come sempre e dappertutto, si tratta di iscrizioni funerarie). Dei veneti si è anche detto che fossero celti o protocelti, ma si tratta di un fatto ambiguo, in quanto ancora alla fine del II millennio la distinzione fra celti e italici non era del tutto chiara. Tratto celtico, ma anche italico (si ricordi il particolare rapporto fra Numa Pompilio e la ninfa Egeria) è l'importanza religiosa data alle fonti e agli spiriti acquatici, su di cui si riverrà anche più avanti, e che fu caratteristica anche dei veneti (il ricordo delle anguane, spiriti acquatici, era vivo nelle popolazione veneta ancora meno di un secolo fa). I templi veneti erano quasi sempre vicini a fonti o a corsi d'acqua; e libagioni d'acqua erano offerte ai loro dei.
Come tutti gli indoeuropei, anche i veneti costruivano in legno. Le genti mediterranee erano state grandi costruttori in pietra, quelle centroeuropee usavano, a quanto sembra, tecniche miste. Non a caso tutte le città venete - principalissime Padova ed Este, ma anche Vicenza, Montebelluna, Oderzo, Treviso, ecc. - furono città di legno delle quali sono rintracciabili soltanto le fondamenta.
La vitalità e l'intraprendenza indoeuropea portò a un fiorire culturale e commerciale che nel veneto antico era stato meno dinamico. L'alto Adriatico, crocevia fra l'Europa settentrionale e orientale e il mondo etrusco e greco e poi romano, divenne un centro artigianale e un crocevia commerciale di tutto rispetto. Attraverso il Veneto passava la via dell'ambra, proveniente dal Baltico, ma si commerciava anche in sale, vino, metalli grezzi e lavorati, ceramica (il Veneto, fin da llora, fu terra di grandi ceramisti) e in cavalli, i cavalli veneti essendo fra i migliori d'Europa - i veneti furono grandi allevatori di cavalli (tratto, questo, fortemente indoeuropeo). Già nel secolo VII c'era una moneta veneta, l'aes rude, sostituita nel secolo III dalla dracma venetica di tipo massaliota e poi, nel I secolo, dalla monetazione romana.
Per quel che riguarda il lato religioso, le informazioni che abbiamo sono scarse. Come dappertutto in Europa - e anche in Asia - lo stabilirsi delle aristocrazie dominanti indoeuropee portò a sincretismi religiosi per cui la religione uranica dei dominatori convisse e acquistò caratteristiche delle religioni dei paleoeuropei sottomessi. Se per il mondo greco molti studi sono stati fatti e, entro ragionevoli limiti, si è riusciti a districare fra ciò che c'era di ellenico e di pre-ellenico nella religione greca, nel resto dell'Europa le cose si presentano molto meno chiare; e quale fosse la religiosità delle popolazioni pre-indoeuropee non-mediterranee è quasi sconosciuto. Aggiungiamo che, specificamente nel Veneto, i luoghi di culto dovevano essere solo eccezionalmente dei templi veri e propri, e generalmente recinti sacri posti nella prossimità delle fonti - comunque, si trattava sempre di strutture in legno delle quali adesso sono riconoscibili soltanto i tracciati. La prossimità delle fonti, se ne è già parlato, potrebbe essere un carattere indoeuropeo, di tipo italo-celtico.
Non c'è dubbio che i veneti dovevano avere una struttura religiosa non dissimile da quella paleoromana, improntata dalla tripartizione indoeuropea (Juppiter, Mars, Quirinus). Ma notizie in riguardo non ne rimangono. I lasciti archeologici puntano invece, con ogni probabilità, essenzialmente alla religione popolare del substrato pre-indoeuropeo della popolazione (come, del resto, è il caso anche in tutta l'area italica, dove però la fabbricazione di templi e di aree cultuali in pietra, per non parlare di una abbondante documentazione scritta, permise agli studiosi contemporanei di farsi un'idea migliore di quali relazioni intercorressero fra fra le diverse stratificazioni religiose).
Prettamente indoeuropeo - anzi, identico a certe pratiche comuni in Lituania fino alla fine del Medioevo - è il sacrificio del cavallo, che poi veniva sepolto sotto tumuli artificiali di terra - diversi scheletri di cavalli sono stati trovati sotto tumuli del genere in terra veneta. Tendenzialmente indoeuropeo potrebbe essere il fatto che le tombe trovate sono prevalentemente a cremazione e poche quelle a inumazione, probabilmente di servi. Anche se sia indoeuropei che paleoeuropei usavano l'una e l'altra pratica funeraria, la prevalenza della cremazione potrebbe indicare una predominanza indoeuropea.
Per il resto, quanto ci è dato di sapere sulle pratiche cultuali nel Veneto pre-romano suggerisce che si tratti in massima parte, come già detto, di sopravvivenze pre-indoeuropee - 'euganee' - e magari anche di influenze mediterranee o di sincretismi a esse legati. La dea più conosciuta del culto veneto preromano era Reitia (radice veneta rekt = tedesco richten = raddrizzare), anticamente Pora, dea del guado o del passaggio, verosimilmente verso le regioni dell'Oltretomba (tratto essenzialmente pre-indoeuropeo). I suoi principali santuari furono a Este e a Vicenza, dove essa aveva l'attributo di sanante e facilitava le guarigioni e i parti. Nei siti dei suoi luoghi di culto sono stati trovati un numero grandissimo di ex-voto, dalle cui iscrizioni si può dedurre che devote a Reitia erano soprattutto le donne. L'aspetto religioso di Reitia sembra coincidere, sia per quel che riguarda la sua attività che per il tipo di culto che le si rendeva, con quello di Esculapio, anch'esso un dio vicino agli umani e verosimilmente di origine pre-indoeuropea. Ad Abano si venerava un non meglio identificato Apono e a Lagole (in Cadore), la tricefala Trumusiate (o Icate), forse affine all'infernale Ecate pre-ellenica: qui, forse, ha da vedersi un influsso mediterraneo. Stranamente, in tempi romani, Trumusiate divenne Apollo.
Storicamente, i veneti gravitarono sempre nell'orbita di Roma, che era un alleato naturale per affrontare gli attacchi dei galli della Padania occidentale e meridionale e contro i quali sia i veneti che i romani si dovettero difendere per secoli. Né si escludono affinità naturali di tipo culturale e linguistico, per cui i veneti, anch'essi italici, si sentivano più vicini ai romani che ai celti. Nel I secolo il Veneto passò, in modo più o meno indolore, a formare parte dell'Impero Romano. Buona parte dei caduti nella battaglia della foresta di Teutoburgo furono veneti.

Bibliografia essenziale: Giulia Fogolari, I veneti, in AA.VV., Antiche genti d'Italia, De Luca, Roma, 1994; Giorgio Chelidonio, Le feste e le tradizioni del fuoco in Lessinia, edizione della Comunità montana della Lessinia, Verona, 1999; Giulio Romano, Archeoastronomia italiana, CLEUP, Padova, 1992; Raffaele Mambella e Lucia Sanesi Mastrocinque, Le Venezie, itinerari archeologici, Newton Compton, Roma, 1988; Roberto Guerra, Antiche popolazioni dell'Italia preromana, Aries, Padova, 1999; Jean Haudry, Gli indoeuropei, Ar, Padova, 2001; Hans F. K. Günther, Tipologia razziale dell'Europa, Ghenos, Ferrara, 2003; Marija Gimbutas, Die Balten, Herbig, München, 1982.

Silvano Lorenzoni

mercoledì 23 aprile 2008

SCANDALO SUL BALDO.Sparite le vecchie lapidi con la storia dei rifugi

SCANDALO SUL BALDO.Sparite le vecchie lapidi con la storia dei rifugi
Lunedì 10 Settembre 2007 L'Arena

Erano la memoria della montagna veronese per eccellenza, e un pezzo della storia del Cai. Bresaola: «Incredibile, rimedieremo»

Bartolo Fracaroli
L’epigrafe storica è sparita. Non è più dove stava, sui muri del rifugio Telegrafo. Forse è in qualche sgabuzzino. La storia: 11 alpinisti veronesi fanno sorgere nel 1963 sulla cresta di Costabella, a 1911 metri di quota sullo spartiacque del massiccio del monte Baldo un rifugio a ricordo di un loro compagno di escursioni, il professor Giovanni Chierego (1891-1960), figura storica del Cai di Verona. Lo statuto della Fondazione Chierego prevede che, alla morte dell’ultimo socio, la struttura passerà alla sezione veronese del Cai. I fondatori erano Giuseppe Banterle, Antonio Bonato, Mario Dolci, Sergio Manfredi, Emilio Morandini, Giuseppe Paluani, Luigi Piccoli, Angelo Poiesi, Franco Righetti, Gaetano Ruffo e Vittorio Tosi.
Ma la targa, ora, non c’è più. È toccato proprio al figlio del professor Chierego, Guido, un pilastro del Cai Verona dei tempi d’oro, fare l’amara scoperta. Proprio a lui, che era stato con i fratelli e le sorelle fra i pochi a battersi perché il rifugio dedicato a suo padre non venisse alienato dal Cai cittadino.
Una compita lettera con il racconto dei fatti è giunta alla Comunità montana del Baldo; vi si espongono i fatti e si invita al ripristino. Il presidente dell’ente che comprende i nove Comuni veronesi del Baldo, Cipriano Castellani, si è detto altrettanto indignato: «Provvederò immediatamente all’accertamento dell’accaduto; è certo che quanto di storico permane al Chierego verrà conservato con cura, deve trattarsi di uno sgradevole equivoco causato da motivi logistici nella gestione».
Ma il caso si ripete anche per il rifugio Telegrafo, più avanti verso Nord, lungo le creste. Della sua lapide storica ci resta una foto pubblicata nel 1977 sul volume celebrativo del centenario della sezione Cai di Verona, fondata nel 1875. È un’iscrizione che figurava in facciata al rifugio Telegrafo, a 2147 metri di altitudine, 50 metri sotto la vetta sul versante gardesano. La lunga epigrafe citava i soci fondatori e presidenti Goiran e Nicolis. La foto-documento fu scattata il 31 luglio 1910, quando la lapide venne scoperta nel corso di una cerimonia, presente il naturalista e mecenate scaligero Achille Forti, che lasciò un immenso patrimonio al Comune di Verona. Nell’ultimo dopoguerra la lapide c’era ancora, lo testimoniano i gestori del rifugio dell’epoca. Allora il rifugio si chiamava «Calzolari e Pona», adesso «Gaetano Barana».
I successivi, pesanti interventi edili fecero staccare l’epigrafe che poi finì spezzata nella grande discarica che costituisce il piazzale del rifugio. Nessuno ha mai pensato di recuperare l’iscrizione. Mentre l’adiacente chiesetta di Santa Rosa da Lima (già rudere di una casermetta) è addobbata di vari cimeli e lapidi, il rifugio «Telegrafo», pure del Cai di Verona, ha perso l’unica che aveva. Ricordava il fondatore del Cai di Verona e grande esploratore botanico del Baldo Agostino Goiran (1835-1909), presidente della sezione dal 1875 al 1885 ed Enrico Nicolis (1841-1908), geologo e conservatore di paleontologia del Museo di storia naturale di Verona, che fu presidente della sezione Cai dal 1886 al 1889. Erano tempi nei quali i soci Cai si dedicavano alla ricerca scientifica e al rimboschimento del Baldo.

Scavi di tombe dei Celti Polemica sui fondi persi

Scavi di tombe dei Celti Polemica sui fondi persi
Giorgio Bovo
Domenica 16 Settembre 2007 l'Arena

POVEGLIANO. Due consiglieri di An chiedono spiegazioni sul sito di Madonna dell’Uva Secca

La Regione non dà i soldi pari a due terzi della spesa «Il progetto del Comune è arrivato fuori termine»

Scoppia la polemica per il mancato finanziamento da parte della Regione dello scavo archeologico all’Ortaia di Madonna dell’Uva Secca. La contestazione viene mossa dai consiglieri di Alleanza Nazionale Pietro Guadagnini ed Edoardo Zanotto non sulla validità dell’operazione, che anzi viene ritenuta molto interessante, ma sul mancato arrivo di contributi regionali. Intendono fare chiarezza su quanto accaduto e puntano il dito accusatore contro l’Amministrazione comunale, richiamando le comunicazioni della Regione. La domanda di contributo inoltrata dal Comune non viene accolta in quanto priva del progetto scientifico e delle autorizzazioni necessarie e sono concessi dieci giorni per presentare osservazioni. Il Comune trasmette le integrazioni (progetto scientifico e convenzione) che sono dichiarate dalla Regione «non accoglibili in quanto trasmesse dopo la scadenza dei termini previsti per la presentazione delle domande».
Guadagnini, per il quale «c’era la possibilità di ricevere i due terzi della spesa, come successo ad altri Comuni», chiede «se i lavori siano stati portati a termine o se siano stati sospesi per mancanza di fondi e, dal momento che l’importo dei lavori era di 33.000 euro (come si evince dalla delibera di contributo della Provincia), e da quest’ultimo ente sono arrivati solamente cinquemila euro, chi abbia pagato gli eventuali altri 28mila euro».
Gli risponde l’assessore Franco Residori: «Il progetto degli scavi archeologici si articola su tre anni. La richiesta di contributi era doverosa e le integrazioni sono state trasmesse entro i termini concessi dalla Regione. È significativo evidenziare che, sentito il parere della Regione, è difficile che l’avvio di uno scavo possa catalizzare subito interessanti finanziamenti e che lo scavo diventa finanziabile quando c’è la sicurezza di ritrovamenti archeologici e della loro peculiarità». L’assessore ribadisce poi la grande valenza dello scavo e aggiunge che «le richieste di contributo verranno presentate il prossimo anno tenendo in grande conto l’eccezionalità dei ritrovamenti di quest’anno. Il preventivo di spesa sottopostoci era di iniziali 33mila euro e per il 2007 è stato preventivato a carico del Comune un costo di 21mila euro che andrà coperto con fondi propri di bilancio. Siamo riusciti a contenere i costi solo con l’aiuto di numerosi volontari esperti ed appassionati».
Guadagnini e Zanotto imputano all’amministrazione comunale scarso peso politico: «Riteniamo questo mancato finanziamento uno smacco pesante per il nostro Comune, che dimostra come la totale mancanza di collegamenti con gli enti superiori sia sinonimo di pochezza politica e scarsa attenzione». Così replica il sindaco Anna Maria Bigon: «Sono stati ottenuti molti contributi per altri servizi anche in misura maggiore rispetto ad altri comuni. Ritengo comunque che tutti dovrebbero concorrere per ottenere vantaggi a favore del proprio paese e, per quanto mi riguarda, vista la regolarità della procedura, non si tratta certo di pochezza politica».
Dagli scavi dell’Ortaia a Madonna dell’Uva Secca è emerso un consistente gruppo di tombe di 2150 anni fa. Partecipano ai lavori specialisti europei della civiltà celtica: oltre a quella bolognese, anche l’università di Budapest con il professor Miklos Szabo, la Soprintendenza del Veneto e di Verona con Giuliano De Marinis e Luciano Salzani.

BASSO FELTRINO Comitato cava: «Siamo in tanti e non ci fermiamo»

BASSO FELTRINO Comitato cava: «Siamo in tanti e non ci fermiamo»
Fulvio Mondin
30 settembre 2007, IL GAZZETTINO

Soddisfatto il Col del Roro per il successo della serata dedicata alla temuta diffusione delle miniere svoltasi venerdì nella palestra di Alano

L’assessore provinciale Giuseppe Pison: «Il sito di Scalon è un biglietto da visita inaccettabile per tutto il Bellunese»

Basso Feltrino
Il comitato "Col del Roro" tira le somme all'indomani dell'affollata serata "Miniere: nessun dorma" organizzata allo scopo di rinfrescare idee e conoscenze in tema di escavazioni.

«L'incontro - spiegano i responsabili del comitato - è stato un chiaro segnale per far capire a tutti che non siamo andati in letargo. Per tenere alta la guardia abbiamo in cantiere altre cartucce che spareremo prossimamente allontanandoci da aspetti tecnici e politici per approfondire tematiche di tipo ambientalista e naturalistico».«Siamo oltremodo preoccupati dalle notizie che abbiamo appreso dalla partecipazione a incontri inerenti le nanopolveri che il cementificio - inceneritore di Pederobba pur nel rispetto delle normative vigenti immetterebbe in atmosfera inglobando nel cemento ceneri provenienti dalla combustione di copertoni e altri materiali. Stiamo dandoci da fare per allacciare ulteriori conoscenze che ci permettano di approfondire il delicato argomento per poi diffonderlo fra la gente. Abbiamo poi certezze che anche nell'area di San Lorenzo oltre l'abitato di Alano la situazione è in movimento».«Vogliamo tenere alta la guardia e far capire a politici, amministratori locali e a chi dice : "le cave si fanno lì e io posso stare tranquillo" che il pericolo è dietro l'angolo per cui dobbiamo vegliare per evitare che il basso feltrino divenga un polo minerario e chi pensava di essere tranquillo si possa trovare la cava nell'orto di casa».Durante l'incontro di venerdì moderato dal giornalista del Gazzettino, Sergio Zanellato, l'assessore provinciale Giuseppe Pison ha puntato il dito contro la miniera di Scalon che, situata all'ingresso della Provincia di Belluno, rappresenta «un biglietto da visita inaccettabile per la nostra Provincia per la quale la salvaguardia dell'ambiente è un elemento irrinunciabile».Pison, anticipando che le future cave del bellunese saranno costituite dai laghi, ha invitato la Regione a delegare alle Province la regolamentazione dell'attività di cava perché tali Enti la possano organizzare sulla base delle proprie necessità.Lo scrittore ambientalista Toio De Savorgnani ha criticato fortemente le leggi che stanno venendo avanti in tema di cave e miniere spiegando che «se le miniere della nostra Regione verranno assoggettate all'approvazione della Sovrintendenza del Veneto fatta da poche persone sovraccaricate da migliaia di progetti a testa all'anno che non hanno nemmeno il tempo di leggere, questi progetti andranno accantonati e, passati i 60 giorni, la formula del silenzio - assenso non permetterà di bloccare nulla».

VICENZA NASCOSTA.Scavi in Santa Corona Riemergono le tombe

VICENZA NASCOSTA.Scavi in Santa Corona Riemergono le tombe
Roberto Luciani
Mercoledì 3 Ottobre 2007, IL GIORNALE DI VICENZA

E in contrà Porti e corso Palladio dai garage escono resti romani

Dopo 157 anni si riscoprono i tesori celati da lastre e ossa

Chi entra in questi giorni nel tempio di Santa Corona si ritrova davanti ad un cantiere. Archeologi al lavoro, pavimentazione scoperchiata, strutture ad arco di mattoni riportate alla luce. Si pensa a chissà quali mirabolanti scoperte, ma le bocche restano cucite.
A svelare l’arcano, però, ci pensa l’assessorato all’urbanistica del Comune che attraverso i suoi uffici fa sapere che in realtà tali lavori rientrano nel capitolato riguardante la ristrutturazione della chiesa. In pratica si tratta di un’indagine, iniziata giovedì della scorsa settimana, per capire la fattibilità dell’installazione di un sistema di riscaldamento a serpentina a pavimento.
E dunque per verificare che ciò che sta sotto, ovvero le tombe ritrovate, sia conforme ai resoconti fatti nel 1850, anno in cui furono tolte le lastre e le ossa per fare l’attuale pavimentazione. e per controllare che il previsto sistema di riscaldamento non vada a incidere con questi preziosi resti.
Saranno poi le due Soprintendenze di Padova e Verona a dare o meno il nulla osta una volta acquisite le relazioni archeologiche.
Intanto sono da segnalare altri due cantieri in pieno centro storico, “miniera” di manufatti d’epoca romana di una certa importanza come dimostrano tutti i ritrovamenti di questi anni più o meno visibili. Basta andare a palazzo Trissino per vedere e credere.
Sembra così anche stavolta, con strutture romane - un tempio o terme o una domus, non è dato di sapere - riportate alla luce nel corso dei lavori per il rifacimento dei garage sia nel cortile di un palazzo settecentesco in contrà Porti che dietro il fast food di una nota catena alimentare americana in corso Palladio.
Momentaneamente chiusi dopo l’intervento del personale della Soprintendenza padovana ai Beni architettonici e archeologici, che vi ha lavorato alacremente, entrambi potrebbero regalare nuove informazioni prima di finire ricoperti come è accaduto per la maggior parte dei resti segnalati sulla mappa dello splendido libro scritto dalla soprintendente Marisa Rigoni per la Banca Popolare di Verona.
Anche in questi casi, dunque, bisognerà attendere le relazioni degli esperti e soprattutto la loro pubblicazione.
Ma per Vicenza romana e i suoi tanti cantieri aperti, purtroppo, l’attesa e gli esami non sembrano aver mai fine.

Treviso. Italia Nostra va all'attacco di Fondazione Cassamarca

Treviso. Italia Nostra va all'attacco di Fondazione Cassamarca
Sebastiano Pozzobon
Il Treviso 5/10/2007

Italia Nostra, attraverso la voce del suo presidente trevigiano, Umberto Zandigiacomi, alza la voce sui "falsi restauri" e sui "pericoli di speculazione" negli interventi promossi dai privati, ma benedetti dal Comune. E addita ad esempio, nientemeno che i colossali investimenti di Fondazione Cassamarca lungo la riviera del Sile: dal Quartiere Latino, già esistente, al futuro intervento nel complesso di San Paolo. Italia Nostra entra così, non certo in punta di piedi, nella polemica recente tra Soprintendenza e Fondazione Cassamarca. Zandigiacomi, in un lungo intervento diffuso ieri, dopo aver criticato la mancata osservanza dei vincoli imposti dalla Soprintendenza cita ad esempio, negativo, i recenti interventi di Fondazione: «L'intervento di recupero del complesso di S.Leonardo è esemplare: nell'edificio più importante sottoposto a vincolo (il corpo verso il Sile) non è stata rispettata la regola prima del restauro: la reversibilità delle opere da eseguire. Il complesso era in origine destinato ad ospitare botteghe artigiane e alloggi per le giovani coppie e ora si trovano negozi non propriamente artigiani e alloggi superlussuo-si; si è giunti ad asportare le lapidi che riportavano i nomi dei benefattori eliminando il segno di ogni memoria del luogo». E Zandigiacomi ne ha anche per "l'invadenza" del ponte di Portoghesi: «Si può soltanto dire, parafrasando una antica barzelletta, che è il posto più bello da cui vedere l'ansa del Sile del ponte Dante e della riviera Garibaldi: è infatti l'unico posto da cui non si vede il ponte-passerella». E l'intervento annunciato nell'ex distretto militare sarebbe, per Italia Nostra, ancora più criticabile: «II recupero del complesso di S.Paolo è sottoposto a richieste che riteniamo errate: destinare 20mila metri cubi ad uso commerciale (pari a circa 6mila metri quadrati di negozi con 4.800 metri quadrati di parcheggi) comporta un ulteriore aggravio di traffico sul Put e nel centro storico; in opposizione totale all'intervento di alleggerimento del traffico cittadino che si vuole realizzare con il trasferimento di attività nel nuovo Appiani».
Scelte, quelle di togliere auto dal centro senza spogliarlo di servizi che, per Italia Nostra, avrebbero bisogno di strategie di ampio respiro, addirittura sovra-comunali: «Richieste di questa portata - chiude Zandigiacomi - non possono nascere da un singolo intervento ed essere risolte in un ambito ristretto. Altrimenti assumono il carattere della solita speculazione edilizia». Critiche pesanti che, naturalmente coinvolgono anche il Comune, non solo per la sua funzione di controllo sull'edilizia privata, ma anche come committente di interventi. Uno per tutti il restauro recente nel museo di Santa Caterina che mancherebbe di "rispetto perla storia e per l'arte": «Altrimenti come si potrebbe spiegare la distruzione dell'allestimento della mostra di Martini, nel chiostro grande di S.Caterina?».

martedì 22 aprile 2008

Insediamento preromano sotto l'isola del Tronchetto

Il Gazzettino, 9 aprile 2008
Insediamento preromano sotto l'isola del Tronchetto
La scoperta è stata compiuta durante gli scavi di Vesta. Si tratta di una palizzata in legno, che farebbe pensare ad un antico argine
Venezia

Che al Tronchetto si potessero effettuare ritrovamenti archeologici di un certo peso sarebbe sembrato ai più una barzelletta. Lunedì, durante gli scavi per la realizzazione della centrale di sollevamento dell'acqua potabile, dal fango è emersa una specie di palizzata in legno. A giudicare dalla profondità, circa due metri sotto il livello medio del mare, potrebbe trattarsi delle vestigia di un insediamento di epoca preromana o comunque di qualcosa che ha più di duemila anni. L'eccezionalità della scoperta sta nel fatto che in questa zona della laguna si riteneva non ci fosse nulla degno di nota.

«Invece siamo stati costretti a ricrederci - commenta il direttore del Nucleo di archeologia subacquea della Soprintendenza Luigi Fozzati - tanto che il vecchio detto secondo il quale "esiste un rischio archeologico in ogni metro quadro di laguna" viene ad essere verificato ogni giorno di più».

Il ritrovamento, come si vede nella foto accanto, riguarda una doppia palizzata di legni di piccolo-medio diametro, infissi verticalmente e orientata approssimativamente in direzione nord-sud. Il tratto scavato finora è lungo una quindicina di metri.

«Da lunedì - riprende Fozzati - gli archeologi sono al lavoro per effettuare un rilievo di tutta la struttura, campioni della quale saranno sottoposti ad accurati esami per conoscere l'essenza da cui i pali furono ricavati e soprattutto la datazione con il carbonio 14. Per completare queste procedure ci vorrà un mese e mezzo. Nel frattempo completeremo lo scavo e realizzeremo un plastico dell'area».

La zona venuta alla luce si trova al di fuori della colata di cemento che costituisce l'isola artificiale, pertanto non sarà possibile sapere se anche sotto il Tronchetto un tempo c'era qualcosa.

«Non sono stati trovati reperti - conclude - ma gli scavi sono ancora in corso. Probabilmente si trattava di una struttura di difesa arginale. Forse un tempo c'era un'isola, una sorta di "paleotronchetto" poi sommerso».

M.F.

Il valore della guerra del sale per il dominio sul Polesine

Il Gazzettino, edizione Rovigo, 22 aprile 2008
Il valore della guerra del sale per il dominio sul Polesine
È asciutta la prosa di Federico Moro, precisa nella descrizione del fatto storico, ma al contempo incalzante, oltremodo sinuosa come quella di un romanzo. Dopo la lettura di un breve passo del suo saggio "Ercole e il leone. 1482 Ferrara e Venezia il duello sul Po", il pubblico si è trovato davanti a questa doppia anima dell'autore che per una strana casualità, ha lo stesso cognome, del resto molto diffuso nella Venezia d'allora e di oggi, del condottiero che nel 1482 ha risalito il Po al comando di una flotta di circa 400 imbarcazioni. «La storia deve essere avvincente come un romanzo», spiega Moro, un imperativo categorico il suo, al quale mai ha rinunciato nella stesura dei suoi saggi storici. «Alla base c'è uno studio attento delle fonti, c'è una ricerca storiografica precisa. Poi la narrazione deve divenire via via avvincente, deve catturare l'attenzione del lettore». L'autore spiega le motivazioni di questo saggio: la guerra del sale (1482-1484) è stata di grande peso strategico. La Repubblica di Venezia, secondo Moro, aveva come obiettivo il controllo della zona delle valli del fiume Po. Attraverso questo controllo territoriale avrebbe tenuto in pugno il Ducato di Milano. Dalla storia questa guerra è stata rilegata in ambito secondario, in realtà per la Repubblica di Venezia ha rappresentato un'occasione molto importante di espansione sulla terraferma. Questo fa capire il perché del dispiegamento di un numero ingente di truppe sia di terra (15mila uomini alla guida di Roberto di Sanseverino) sia fluviali (400 imbarcazioni sotto il comando di Damiano Moro). Il conflitto ha chiamato in causa tutti gli stati italiani, innescando il sottile meccanismo delle alleanze territoriali. I veneziani riescono a risalire il fiume e non solo hanno la meglio nel duello di Polesella, riescono addirittura a espugnare Ficarolo (maggio-giugno 1482). Le operazioni belliche si spostano in seguito in Lombardia, il Ferrarese rimane fino alla fine sotto la minaccia della Repubblica. Con la pace di Bagnolo (7 agosto 1484), Adria, Ariano, Melara, Castelnovo, Ficarolo e Castelguglielmo tornano sotto il dominio di Ercole I d'Este, mentre il Polesine rimane a Venezia. Le vicende storiche che si sono svolte in quegli anni nelle "terre d'acqua" del Polesine hanno richiamato un pubblico numeroso in sala Agostiniani lo scorso venerdì. L'iniziativa organizzata dall'amministrazione di Polesella sembra aver colto nel segno.

VALBRENTA Mezzo secolo e quasi metà dell’acqua è sparita., Brenta dimagrito del 40\%

Il Gazzettino, 22 aprile 2008
VALBRENTA Mezzo secolo e quasi metà dell’acqua è sparita. L’assessore Pellizzon snocciola dati allarmanti per usi energetici
Brenta dimagrito del 40\%
Valbrenta

"In poco più di 50 anni l'acqua del Brenta è diminuita di oltre il 40\% - informa Giuseppe Pellizzon, assessore alla tutela delle acque della Comunità montana -. Credo che i dati presentati nella relazione del progetto per la richiesta di potenziamento, della derivazione d'acqua di località Collicello, non siano attendibili, in quanto si riferiscono al periodo che va dal 1983 al 1992 e non considerano la portata media del fiume attuale, quella del decennio 1997-2007".

Dal 1942 è attiva, a nord di Valstagna, una concessione sul Brenta che alimenta la centrale idroelettrica di San Gaetano, in funzione con due turbine che producono circa 40 milioni di kwh. L'attuale società proprietaria ha presentato alla Regione una richiesta di rinnovo della concessione della derivazione ad uso idroelettrico, con potenziamento dell'impianto e installazione di una terza turbina, che dovrebbe assicurare un'ulteriore produzione di 2 milioni di kwh, utilizzando una portata aggiuntiva di 5 mc/s. Favorevole alla produzione di energia, ma scettico sulla reale capacità del fiume di assicurare l'acqua necessaria ad alimentare il potenziamento dell'impianto, l'assessore snocciola una serie allarmante di dati. "Nel 1950 la portata media del Brenta, allo sbarramento di Mignano, era di 76 mc/s ed è progressivamente diminuita, tanto da raggiungere nel triennio 2005-2007 i 44 mc/s - spiega Pellizzon. - Se a questa togliamo la percentuale dovuta all'apporto dell'Oliero, l'attuale portata del Brenta in località Collicello, qualche chilometro a nord di Mignano, calcolando il deflusso minimo vitale previsto dal Piano di tutela delle acque, risulterebbe inferiore a quella richiesta per alimentare il nuovo impianto. Quindi il problema sta a monte. Ben venga un aumento di produzione di energia, se ci sono le condizioni ambientali per poterlo fare, ma, dati alla mano, manca la materia prima per realizzarla, cioè l'acqua nel Brenta".

Il responsabile tecnico dell'impianto ha assicurato la disponibilità della ditta ad adeguare il progetto alle normative vigenti, oltre a garantire il rilascio del minimo vitale di acqua. Inoltre, il terzo gruppo entrerebbe in funzione solo nei periodi in cui vi è acqua disponibile nel Brenta, riducendo il prelievo nei periodi critici.Il presidente dell'associazione Bacino Acque Fiume Brenta, Rolando Lubiam, dice: "Come imprenditore sostengo la produzione di fonti di energia alternativa. Tuttavia ritengo opportuno considerare che la Regione Veneto non ha ancora indicato il valore del minimo vitale di portata del fiume, mentre nella confinante provincia di Trento sono previsti parametri più elevati. Quindi bisogna ponderare attentamente l'influenza dell'entrata in funzione di una terza turbina sull'andamento delle acque del Brenta, considerato il più bel fiume d'Italia, con delle zone Sic, siti d'importanza comunitaria sia a nord, che a sud, una risorsa da sfruttare per fini turistici, con notevoli attività legate all'ambiente fluviale sorte negli ultimi anni".

Roberto Lazzarato

«Non toccate gli argini del Chiampo»

Il Gazzettino, 22 aprile 2008
OVEST VICENTINO Le amministrazioni di Montebello, Montorso e Zermeghedo contrarie al progetto della Regione
«Non toccate gli argini del Chiampo»
Raccolte 1600 firme. I tre Comuni hanno mandato al Via le osservazioni sul piano
Ovest Vicentino

(P.F.) Montebello, Montorso e Zermeghedo dicono No al progetto della Regione Veneto "Opere idrauliche sul sistema Chiampo-Alpone a salvaguardia dell'abitato di S.Bonifacio e territori circostanti", anticipati dalle 1.600 firme di contrarietà dei cittadini (un record se si pensa al poco tempo a disposizione per la raccolta). Il territorio si è mobilitato in massa: oltre ai cittadini, anche le associazioni di categoria, artigiani ed industriali hanno spedito le loro osservazioni. Montebello prima, Montorso il 17 aprile e Zermeghedo il 19, hanno deliberato all'unanimità, il parere contrario all'attuazione dell'intervento. Il provvedimento sarà trasmesso entro il 26 aprile alla Commissione Via (Valutazione d'Impatto Ambientale) della Regione Veneto. I tre Comuni hanno affidato ai professionisti Rimsky Valvassori, Roberta Meneghini e Riccardo Ballerini l'analisi progettuale, ambientale e geologica del progetto e dello Studio d'Impatto Ambientale. Quest'analisi ha condotto ad un parere negativo, unitario e concorde, su un'opera caratterizzata da impatti devastanti, mitigazioni irrilevanti e nessun vantaggio per il territorio. Aggravio del traffico pesante da un minimo di 800 fino a 2000 passaggi al giorno in un'area già congestionata; impatto sul contesto geologico e idrogeologico; preoccupazione sulla qualità dei terreni di scavo, considerato che il Chiampo è stato per decenni ricettacolo di inquinanti legati all'attività della concia; problematiche legate alla gestione del cantiere e alle fasi di scavo in alveo durante le eventuali piene che potrebbero portare a esondazioni incontrollate; eliminazione dell'ultima area agricola in un territorio fortemente urbanizzato e sfruttato, e quindi anche di una fonte di reddito per alcuni abitanti; danneggiamento in maniera irreversibile del paesaggio rurale, con il suo bagaglio storico, sociale e affettivo difficilmente quantificabile; eliminazione della funzione fonoassorbente, rispetto ai rumori provenienti dalla zona industriale e dalla viabilità esistente, che gli argini rivestono nei confronti degli abitati della zona: queste alcune delle osservazioni.

GARDA. Pace fatta con i Salesiani La Rocca sarà del Comune

GARDA. Pace fatta con i Salesiani La Rocca sarà del Comune
Annamaria Schiano
Martedì 22 Aprile 2008 L'ARENA

Si chiude una difficile trattativa durata anni. Oggi il passaggio della delibera in Consiglio comunale

Il sindaco: «C’è stata molta disponibilità, il prossimo passo sarà la valorizzazione dell’area archeologica»

Pace fatta tra Salesiani e Comune per la vendita della Rocca. Oggi, infatti, il consiglio comunale porrà la parola fine alla tormentata trattativa, deliberando l’acquisizione dei terreni dall’Istituto Salesiano Don Bosco.
«Siamo giunti finalmente al termine», spiega il sindaco Davide Bendinelli: «Portiamo in Consiglio la delibera che autorizza il Comune a procedere all’atto notarile di acquisizione. L’accordo definitivo prevede che il Comune acquisti 52 mila metri quadrati di terreni distribuiti sulla sommità della Rocca, riducendo di 11 mila metri quadrati la superficie prevista inizialmente. Questi 11 mila metri a noi non interessano perché sono sostanzialmente area boschiva, e rimarranno ai Salesiani che saranno liberi di venderli al privato con cui si erano impegnati».
«La spesa sarà di 45 mila euro, cioè 8 euro e mezzo al metro. L’accordo raggiunto è soddisfacente», sottolinea il sindaco, «quindi mi sento di ringraziare don Romano Bettin per la disponibilità. Ora dopo la deliberazione del Consiglio, il segretario comunale predisporrà la documentazione per l’atto di rogito e nell’arco di un mese saranno acquisiti i terreni». «Poi, appena riusciremo a reperire altri fondi», conclude Bendinelli, «penseremo alla valorizzazione del sito archeologico e dell’ambiente naturale della Rocca».
Tutto bene quel che finisce bene, dunque, anche se non sono mancate scintille tra il direttore dei Salesiani e il sindaco di Garda, in un passaggio di proprietà trascinatosi per anni, tanto che l’istituto Don Bosco ad un certo punto, stanco di aspettare, aveva stipulato un accordo di affitto e di successiva vendita con un agricoltore. Così sono cambiate anche le cifre, visto che l’agricoltore offriva il doppio del Comune di Garda. Nel 1998 infatti, i Salesiani avevano offerto i terreni della Rocca al comune, proponendo la vendita di 63 mila e 765 metri quadrati a un prezzo scontato di 30 mila euro. Proposta che però non si era mai trasformata in atto formale. «Sono 30 anni che i Salesiani vogliono liberarsi della Rocca perché non vogliono più avere la responsabilità di quello che vi accade sopra: vi si radunano gruppi di giovani, si ubriacano, fanno fuochi, si trovano siringhe e con il grande pericolo che qualcuno cada giù», aveva continuato a ripetere don Romano Bettin. Quindi aveva colto l’offerta di un privato che metteva sul tavolo il doppio del prezzo pattuito con il comune. Da quel momento però Bendinelli aveva ripreso la trattativa, non accettando di veder finire in mani private, la collina storica di Garda, dove sulla sommità sono emersi i resti archeologici dell’antico castello dove la Regina Adelaide venne imprigionata da Berengario II.
Scavi cofinanziati dai comuni di Garda, Bardolino e Provincia di Verona, per 700 milioni di lire dell’epoca. Soldi utilizzati per le ricerche archeologiche, dal 1999 al 2005. Nel 1999, infatti, in occasione della ricorrenza dei mille anni dalla morte della Regina Adelaide (999), era nato il progetto di ricerca delle tracce dell’antico castello. Nel 2005, poi fu anche pubblicato il libro «Archeologia a Garda e nel suo territorio», dove sono descritte le tappe dei ritrovamenti archeologici: tre cinte murarie, un’area di edifici pubblici del castello, una chiesa con mosaici e un’area cimiteriale. Lavori di ricerca che sono fermi da tre anni, con i ritrovamenti esposti alle intemperie. Ai lavori di indagine, è legato il progetto di istituzione di un parco archeologico, in collaborazione tra i comuni di Bardolino e Garda: denominato appunto «Progetto Regina Adelaide».

Miniera dei Luvi, il no al Consiglio di Stato

L'Arena, Martedì 22 Aprile 2008
S. GIOVANNI ILARIONE
Miniera dei Luvi, il no al Consiglio di Stato

Miniera dei Luvi, il no arriva fino al Consiglio di Stato. La Giunta del sindaco Domenico Dal Cero ha deliberato di incaricare l’avvocato Luigi Biondaro, che più volte ha patrocinato l’ente nelle battaglie contro le miniere, di assistere il Comune davanti ai giudici romani. La costituzione in giudizio si è resa necessaria dopo il ricorso in appello presentato al Consiglio di Stato dal curatore fallimentare della Sartori Escavazioni. Ad essere impugnata è la sentenza del Tar del Veneto che conferma l’efficacia della delibera della giunta regionale con cui, nel marzo 2006, è stata annullata la concessione per l’estrazione di bentonite e terre refrattarie.
Il no espresso prima dalla giunta regionale e poi dal Tar si fonda anche sul fatto che la concessione non sarebbe stata utilizzata, vista la lunga inattività della miniera: per lo stesso motivo la concessione, scaduta, non si sarebbe potuta considerare come un attivo fallimentare trasferibile ad altri. Contro il rinnovo della concessione e il rischio per paesaggio e ambiente della zona si erano espressi i consigli comunali di San Giovanni Ilarione e Vestenanova. La concessione mineraria dei Luvi interessa un’area di 102 ettari tra i due comuni. Accordata nel 1974 alla Berica Bentoniti, passò nel 1996 alla Sartori Escavazioni. Questa fallì nel 1997. Nel settembre del 2003 venne presentata in Regione la richiesta di rinnovo della concessione che sarebbe scaduta a febbraio 2004 e fu richiesto di trasferire la concessione alla ditta Zen di Orgiano, che se l’era aggiudicata all’asta fallimentare. Da lì aveva preso il via l’iter amministrativo prima e legale poi che ha nell’istanza presentata al Consiglio di Stato il suo più recente sviluppo.P.D.C.

lunedì 21 aprile 2008

VERONA - Arco dei Gavi e degrado, un fossato lo salverà

VERONA - Arco dei Gavi e degrado, un fossato lo salverà
L'Arena 21/04/2008

Un fossato profondo due metri difenderà l’Arco dei Gavi dai vandali e dai writers. Lo ha deciso con una delibera la Giunta comunale, dopo averle pensate tutte per difendere il monumento che sorge a fianco di Castelvecchio, alla fine di corso Cavour, e dopo aver constatato soprattutto che la vigilanza con una telecamera fissa non ha dato i risultati sperati.
Lo scempio dell’Arco dei Gavi imbrattato di scritte tracciate con la vernice, sporcato da ogni tipo di rifiuto, è da oltre un anno in mondovisione come aveva riportato L’Arena nel marzo 2007 per l’iniziativa di un turista straniero che sulla mappa di Verona caricata su Google Earth ha inserito due foto in corrispondenza dell’Arco che si aprono quando si clicca sul link «disrespected», riservato ai luoghi storici dove c’è mancanza di rispetto.
La denuncia era stata poi ripresa dal club di Forza Italia Postumia di Stefano Casali che aveva proposto videosorveglianza e recinzione.
E gli interventi nel gennaio scorso ci sono stati: la Regione ha inviato al Comune le risorse per ripulire l’Arco dei Gavi e per installare una telecamera che scoraggiasse i vandali e il Comune ha studiato anche la possibilità di una cancellata.
«Alla fine però», spiega il sindaco Flavio Tosi reduce dal vertice sulla sicurezza tenutosi a Parma nel quale molte città del Nord hanno chiesto più poteri per i primi cittadini anche per combattere questo tipo di degrado, «abbiamo scartato tutte le altre ipotesi. La cancellata avrebbe reso meno visibile l’Arco; una protezione con pannelli di vetro-plexiglas non avrebbe risolto il problema delle scritte con la vernice; abbiamo pensato anche di creare uno specchio d’acqua attorno al monumento, ma non c’è spazio sufficiente. Quindi, la Giunta ha deciso per il fossato».
Ora si tratta di aprire la gara per affidare i lavori. «La spesa non è di poco conto ma possiamo contare sul contributo della Fondazione Cariverona. Inoltre il fossato sarà fatto in modo da rendere impossibile, se uno ci andasse dentro, la risalita verso l’Arco, perché ci saranno arbusti e sporgenze».
Eretto in epoca romana, l’Arco dei Gavi viene fatto risalire al primo secolo dopo Cristo e venne costruito per conto della famiglia Gavia dall’architetto Vitruvio Cerdone; fu distrutto dai francesi nel 1705 e poi ricomposto con rattoppi e restauri nel 1930.
Una spesa di cui il Comune avrebbe fatto volentieri a meno, dirottando altrove il contributo: «Purtroppo però», spiega il sindaco, «la normativa vigente non colpisce in modo abbastanza serio chi compie vandalismi contro i monumenti, però noi sindaci vogliamo tenere alta la vigilanza e per questo non molliamo la battaglia per avere più poteri sul fronte della sicurezza. Uno degli aspetti più positivi del vertice di Parma è che anche i sindaci di centrosinistra condividono il percorso e quindi chiederanno che il Parlamento pure l’opposizione approvi i nuovi provvedimenti».

sabato 19 aprile 2008

Verona. «Tesori» all’asta, sì al cambio d’uso

VERONA: PATRIMONI IN VENDITA.«Tesori» all’asta, sì al cambio d’uso
Venerdì 18 Aprile 2008 L'ARENA

Via libera in Consiglio alla delibera che riguarda Palazzo Forti, Pompei, Gobetti e un ex monastero

Il testo è stato approvato con 24 voti a favore e nove contrari.

La decisione punta ad accrescere il valore commerciale degli immobili

Il Consiglio comunale ha approvato con 24 voti a favore e 9 contrari la delibera relativa al cambio di destinazione d’uso dei palazzi Forti, Pompei e Gobetti e del monastero di San Domenico, immobili che l’amministrazione ha intenzione di vendere mediante asta pubblica.

Ecco quindi che la decisione di modificare la destinazione di questi spazi a uso residenziale, direzionale e commerciale, va nell’ottica di valorizzare gli stabili per aumentarne il valore commerciale, come ha spiegato l’assessore all’Urbanistica Vito Giacino.

Immobili che comunque, come ha sottolineato Stefania Sartori (Pd), contraria alla delibera, sono soggetti alla «preventiva autorizzazione da parte del ministero per i Beni e le attività culturali non ancora arrivata.


«É vero che la variante 33 ammette sempre il cambio di destinazione a residenziale», ha detto Roberto Uboldi (Pd), «ma l’intenzione era quella di favorire le residenze nel centro storico, mentre qui siamo in presenza del primo Piano degli interventi del Pat: il cambio di destinazione d’uso in centro è questione troppo delicata per essere affidata a una delibera ricognitoria come questa», ha concluso contestando anche il ricorso alla monetizzazione degli standard e ricordando come, quando la passata amministrazione voleva vendere i palazzi Gobetti e Pompei il centrodestra «insorse gridando al sacco della città».

Infine Roberto Fasoli e Carla Padovani (Pd) hanno evidenziato la mancanza di rispetto del testamento fortiano chiedendo alla città di ribellarsi al «tradimento». Prima del voto, Giacino ha replicato che la monetizzazione è prevista dalle norme e che per l’alienazione del lascito Forti «non accadrà quanto accaduto a fondo Frugose, ma gli immobili saranno rimpinguati». G.C.

giovedì 17 aprile 2008

Cavaion. Lo scavo sul monte fa discutere il paese

L'Arena, Giovedì 17 Aprile 2008
CAVAION. Eliminata una fetta del rilievo delle Bionde. La consigliere Tramonte: «Quella zona è sottoposta a vincolo»
Lo scavo sul monte fa discutere il paese
Nessun valore archeologico per la Soprintendenza. Il sindaco: «A lavori finiti l’area risulterà splendida»

Annamaria Schiano
Lo sbancamento del Monte delle Bionde, in via Grande, alle spalle del quartiere «Le Pezze», ha sollevato le proteste di molti cittadini. Tra loro anche l’architetto e consigliere comunale di minoranza, Sabrina Tramonte, che ha inviato una segnalazione a Soprintendenza ai beni ambientali ed architettonici di Verona, Soprintendenza Archeologica del Veneto, Corpo Forestale dello Stato e polizia locale di Cavaion.
Nella lettera la consigliera scriveva: «Sono iniziati lavori di scavo e sbancamento di parte del Monte delle Bionde. Il sito rientra sia nel vincolo ambientale-paesaggistico, sia in parte nel vincolo archeologico, per i ritrovamenti di un complesso insediativo preistorico rilevato nei sondaggi effettuati tra il 1999 e il 2002. Dalle risposte avute dai vari uffici comunali ho rilevato che i lavori di scavo sono stati effettuati senza alcuna autorizzazione».
Il 30 gennaio la Soprintendenza ai beni culturali e paesaggistici, nucleo operativo di Verona, ha risposto alla segnalazione di Tramonte: «Il dottor Luciano Salzani, funzionario archeologo di questa Soprintendenza, è stato informato sui lavori la sera di sabato 12 gennaio. La mattina del 13, ha eseguito un sopralluogo e ha incontrato sindaco e vicesindaco di Cavaion, ai quali ha richiesto di sospendere i lavori e di far eseguire dei sondaggi archeologici. I sondaggi sono stati eseguiti lunedì 14 dalla Società Archeologica Sap, che ha evidenziato la totale assenza di elementi di interesse archeologico all’interno dell’area attinente al progetto. Inoltre si precisa che l’area del Monte delle Bionde, non è sottoposta a vincolo archeologico e che il progetto approvato dal consiglio comunale non va ad interferire con le aree archeologiche indagate».
Ora i passaggi amministrativi: giusto tre anni fa, nell’aprile 2005, la giunta comunale aveva deliberato il progetto preliminare per l’istituzione di un parco verde di 10 mila mq sul monte delle Bionde, con all’interno il sito archeologico, da reallizzare entro l’anno. «Parco che sarà finanziato con mutuo e contributo regionale, per una spesa di 164 mila euro», aveva promesso il sindaco Lorenzo Sartori. Poi il Consiglio comunale approvava il progetto della costruzione di un asilo nido ai piedi del monte nei terreni di proprietà comunale. Parte così l’iter per l’approvazione del progetto definitivo che non si è ancora concluso, poiché il 14 marzo 2008, la giunta ha deliberato una variante al progetto, che sposta di circa 10 metri l’edificio che dovrà essere costruito e aggiunge un magazzino al piano interrato. Ora la variante dovrà passare al voto del Consiglio comunale per l’approvazione finale del progetto definitivo-esecutivo. «Bisognerà poi indire il bando d’appalto e i lavori partiranno a metà anno», spiega il sindaco. Dunque molti cittadini si sono chiesti perché il Comune abbia spianato il monte quando ancora deve essere approvato definitivamente il progetto e i lavori partiranno fra mesi, «tirando giù», hanno denunciato, «una fetta di 15 metri di monte».
Interrogativo girato al sindaco: «Abbiamo preparato il terreno per la costruzione dell’asilo nido ed è stata tolta una piccola sezione laterale del monte, poiché ricadeva troppo a ridosso della lottizzazione ed è stata fatta una pulizia dell’area bassa sotto il monte. La parte archeologica non è stata toccata, come rilevato anche dalla Soprintendenza».