lunedì 31 marzo 2008

Flagellum Dei, il fuoco degli Unni: Trieste, venerdì 4 aprile ore 18,00

Trieste, venerdì 4 aprile ore 18,00
Libreria Internazionale Borsatti, via Ponchielli 3 (tel. 040.632164),
presentazione del romanzo
Flagellum Dei, il fuoco degli Unni, di Federico Moro
StudioLT2 Edizioni. Ingresso libero, interviene l’autore.

Oggetto di un incontro nell’ambito della mostra “Roma e i Barbari” a Palazzo Grassi (Ve) lo scorso 27 febbraio, il volume sarà la traccia per le “Visite d’Autore” che in collaborazione con il Centro di Cultura inizieranno sabato 19 aprile pv senza costo aggiuntivo rispetto al normale prezzo del biglietto (è gradita la prenotazione telefonica o via mail). Autore e volume sono invitati alla prossima Fiera del Libro di Torino, 8-12 maggio.

domenica 30 marzo 2008

ZERMEGHEDO: «Vogliono fare un’altra cava» La sollevazione dei sindaci

"il giornale di Vicenza", Domenica 30 Marzo 2008

ZERMEGHEDO. Tre Comuni chiedono al Via regionale di dire “no”
«Vogliono fare un’altra cava» La sollevazione dei sindaci
In 150 all’assemblea che ha presentato le osservazioni contro il progetto del bacino


Erano oltre 150 i cittadini che l'altra sera hanno riempito la sala Triscom di Zermeghedo per assistere alla presentazione delle osservazioni contro il progetto della Regione per l'abbassamento degli argini del torrente Chiampo e l'escavazione di un bacino di laminazione.
I sindaci di Zermeghedo Giuseppe Castaman, di Montorso Diego Zaffari e l'assessore di Montebello Giuseppe Rigon hanno contestato compatti il progetto, invitando anche i cittadini ad opporsi: «È uno stratagemma per creare una cava» ha spiegato Castaman. Il primo cittadino di Montorso ha definito “devastante" l'intervento che presto sarà valutato dalla commissione Via regionale: «Inoltre, raddoppierà con il cantiere il traffico attuale di camion».
Fra le motivazioni contrarie al progetto, i tecnici dei tre Comuni hanno segnalato il pericolo di inquinamento della falda acquifera, la rovina del paesaggio e il probabile inquinamento del materiale escavato dall'alveo del Chiampo.
I cittadini hanno tempo fino al 17 aprile per inviare le proprie osservazioni al progetto in Regione alla commissione Via; i Comuni avranno dieci giorni in più a disposizione per fare dei rilievi. N. REZ.

mercoledì 19 marzo 2008

«Il Garda è a rischio troppe seconde case»

DESENZANO. «Il Garda è a rischio troppe seconde case»
Lunedì 17 Marzo 2008 BRESCIA OGGI

Il presidente della Comunità preoccupato per l’eccessiva cementificazione

Il Garda dall'esterno è percepibile con un'identità comune né lombarda né veneta né trentina, ma semplicemente gardesana. Dall'interno, invece, gli amministratori faticano a mettere insieme la sua ricchezza. Con queste premesse a Desenzano sabato scorso si è svolto il convegno «Comunicare il territorio: valorizzazione e programmazione». L'iniziativa è nata come ideale prosecuzione della ricerca svolta da Renata Salvarani, docente dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, a cominciare dalle pubblicazione sul «Garda romanico».
Il Garda ospita molto turismo mordi e fuggi, ma ora deve sviluppare quello culturale. Le risorse sono tante, ma la frammentazione e il particolarismo sono un limite e governare un lago diviso tra Regioni e Province è una difficoltà. Eppure può ancora essere considerato unitario. Le pievi, i castelli, i musei, i reperti romani e le ville rinascimentali costituiscono un sistema culturale diffuso sul territorio, che va studiato, comunicato, valorizzato e proposto in chiave turistica. E questo è l'obiettivo della ricerca della Salvarani «Il Garda: il territorio e l'identità attraverso i secoli», presentato ieri e che proseguirà con iniziative didattiche.
«Il patrimonio gardesano è ampio – come ha spiegato l'architetto Massimo Locatelli – ma spesso è incurato». Sono un esempio positivo l'abbazia di Maguzzano e l'area di Sirmione, che in Italia come visite è seconda solo a Pompei. Purtroppo è negativo quello dell'ex abbazia San Vigilio a Pozzolengo. Lasciata a sé stessa, è stata depredata di una colonna con il conseguente crollo di una volta del '600.
In alcune zone, come sottolineato dal senatore Aventino Frau presidente della Comunità del Garda, il senso di appartenenza o il paesaggio non sono più esistenti: come lungo la Provinciale da Padenghe a Salò. «Se si fanno i conti solo con la cassa, tra poco gli albergatori l'avranno vuota. Oggi un albergo su quella strada della Valtenesi non lavorerebbe, non c'è differenza da una strada della periferia milanese». La storia e il progresso non possono essere fermati, ma il Garda è un capitale da mantenere, eppure «è diventato un mezzo di investimento finanziario. Non possiamo solo pensare a seconde case utilizzate per un mese e che sciupano il lago». Un no alla speculazione.E.GR.

martedì 18 marzo 2008

Jesolo (ve) sabato 22 marzo 2008 Rito Equinozio di Primavera

Il rito dell'Equinozio di Primavera che celebra la nascita,
sarà celebrato
sabato 22 marzo 2008 presso il Bosco Sacro in Jesolo - Venezia
in Via Ca' Gamba, settima traversa al civico 3B.
Ultima ora d'arrivo è alle ore 17:30.

Il rito dell'Equinozio di Primavera si terrà con le stesse modalità
degli anni precedenti. In internet trovate abbandante documentazione, sia in foto che in filmati, delle edizioni precedenti.
Ricordarsi di portarsi degli strumenti musicali.
L'invito è aperto a tutti. Per chi vuole, c'è la possibilità di compiere anche i propri riti.
Il Bosco Sacro di Jesolo ha ottenuto il riconoscimento ufficiale come luogo di culto. Perciò nessun problema con le autorità.
Per informazioni mi potete chiamare: 349 7554994.
Ciao.
Francesco Scanagatta

sabato 15 marzo 2008

PETRARCA Sulle tracce di Laura perduta

LUOGHI LETTERARI Passeggiata nei Colli Euganei dove la realta' genera magie, apparizioni, ricordi. Molti grandi scrittori affascinati da queste terre
PETRARCA Sulle tracce di Laura perduta
Un mito poetico fra dispute filologiche, sport e canzonette Pellegrinaggio alla casa del "sommo" con Alfieri e Foscolo E Buzzati creo' la leggenda del vulcano che erutta gatti rabbiosi
Esistono davvero certi luoghi, anzi, certe concrezioni o arcipelaghi di luogni in cui, per quanto ci si addentri, e per quanto li si pensi e ripensi, o li si colga tutti insieme come in un plastico fissato da una prospettiva dall'alto, mai si riuscirebbe a precisarne una vera "mappa", a fissarvi itinerari. La voglia che tali luoghi insinuano e' quella di introiettarli quasi fisicamente, tanto sono vibranti di vitalita' intrecciate e dense. Essi esistono in tutto il mondo, e l'Italia ne e' colma. Cio' che spinge a identificarli davvero e' un amore esclusivo, "fatale", per la mai stanca violenza con cui sale dal fondo dei fondi e spinge come fuoco sotterraneo. Ecco, questo si puo' dire particolarmente, con sfacciata e maliosa evidenza dei Colli (monti) Euganei. Anche un semplice pieghevole pubblicitario e' piu' che sufficiente a far entrare in una fuga di piani visivi, di vicende della terra e degli esseri umani che vi stanno per scelta o per destino con i loro casali, paesi o castelli, a dare il senso di un "infinito" e di un "eterno" proprii. E' una realta' che trascina in un gorgo di intrighi o apparizioni o conferme: a partire dalle vicine o incluse "astuzie" termiche di falde acquifere salutari, gia' cantate sin dai tempi antichi (Claudiano), e lasciando sullo sfondo Padova. Muoversi, formicolare, stare negli Euganei e glissare di la' in tutte le direzioni del cosmo, cogliere i possibili della tortuosita' di una o di dieci stradine su dieci diversi orizzonti e assaggiare la sana festosita' e la pacatezza dei tanti olivi e dei tanti olii sufficienti ad alimentare per sempre lucerne interiori e fluidita' di fantasie. E presto ci si trova invischiati dolcemente e acremente in successivi paradisi, accordati col corpo geologico e coi 30 - 35 milioni di anni che gli inarcano le spalle, col gregge indisciplinato dei colli - monti che finiscono per modularsi in labirinto. Dall'estremo sud del sistema subito chiamano i frantumi "radioattivi" del santuario - scriptorium estense sacro alla dea paleoveneta Reitia, raddrizzatrice del mondo, tessitrice, sanatrice, alla testa di un pantheon quasi tutto femminile. Reitia, chissa'... Una fanciulla di estrema irrealta' ed eleganza che esce da un boschetto o una fruttante madre ruzantiana al lavoro nel cortile di una fattoria. Il tutto in frammenti e schegge, ma anche in situle (vasi) ben tornite, in monili di inquieto estro, e in rune forse lunari... Immediatamente dopo, a nord si alzano sui colli Baone, e Calaone gia' corte dei marchesi d'Este dove nel XII secolo si era acceso il primo e piu' importante cenacolo di poeti provenzali d'Italia, anche con rifugiati dalla persecuzione in patria. Spiccavano tra essi, come risulto' dagli entusiasmanti studi di Gianfranco Folena, in un fitto quadro di rapporti fra Italia settentrionale e Provenza, le figure di Aimeric De Peguilhan, di Lambertino Buvalelli e del giovane Sordello. La duchessa Beatrice d'Este era stata, prima del ritiro monastico, il nobile "restaur" d'"Est", la donatrice di energia in quella esperienza, e aveva la gioia come guida. L'immenso patrimonio lirico occitanico giustamente si assestava qui dopo le tappe sicula e toscana, per trovare nel Petrarca e in Arqua', il culmine di un'intera tradizione e un incredibile inizio. Con la potenza gravitazionale di un astro massimo, Petrarca si presenta quale immagine dell'autonomia dell'atto poetico e dell'amore - veleno necessario a nutrirlo. Intorno a lui ruotano eventi e frotte di ammiratori e imitatori illustri, ma anche di letterati ammuffiti. Ora, col suo rosagiallo, il sarcofago tante volte manomesso e restaurato campeggia nella piazzetta per i turisti, ma nell'inverno silente questa pare si dilati e dilati ancora entro il nulla; e profumato di brina e nulla e' anche il sarcofago, che non per questo cessera' di essere smangiucchiato, come la testa bronzea del poeta che vi e' sovrapposta mai cessera' di far da bersaglio alle sassate. E ci sara' ancora un resto di quel nido di calabroni che fu trovato nel secolo scorso tra le costole nude del Petrarca, nel corso di un'ispezione? Non fa pensare alle api di Aristeo, simbolo del puntiglioso rinascere della poesia? E non fa tenerezza, prima ancora che suscitare riverenza, la non enfatica dimora del poeta poco lontana? Quell'aspetto romito e difficile che conservano i Colli, penetrabili solo a piedi per certi viottoli non asfaltati, dove e' ancora possibile trovare il falco, certo si confaceva a Petrarca ed ai suoi cammini, in cui e' giusto vedere l'assommarsi e il divaricarsi delle piu' varie esperienze intellettive e del sentimento, a ridosso di un "ultimo limite". E se ora si e' posta qualche tregua, quasi a furor di popolo, al peggiore sfruttamento e smangiamento delle rocce, le pur sempre crude cicatrici qua e la' troppo spesso affiorano: ma forse queste ferite entrerebbero assai funzionalmente nella poesia petrarchesca. E vien qui fatto di ricordare che Dino Buzzati nei suoi Miracoli di Val Morel parla dell'improvviso risveglio vulcanico che erutto' gatti rabbiosi, per la precisione 973, distrutti grazie a Santa Rita nel 1737; aggiornando, piu' tardi egli auspicava un'eruzione di pantere, invece istigata da Rita, per frenare i demolitori dei Colli. Qui ci si incontrerebbe con le grandi storie del folclore locale non meno ricco di verita' e di fole che le fantasie letterarie e piu' corposo di esse. Ma in questi ultimi tempi si comincia a stare in pensiero per un altro tipo di demolizione che sarebbe di fatto una decapitazione. E i poeti di queste parti, alcuni bravissimi come Marco, sono in allarme. Si', perche' pare stia tremolando e svanendo nel mito Laura stessa, la signora degli amori di tutta Europa. Mentre ferrati studiosi tornano alla carica contro l'esistenza di Laura, le stelle fanno coincidere l'evento con il gran successo al Festival di Sanremo della canzone Laura non c'e', e Nek e' il nome del cantautore che viene a sottolineare questa vera e propria nex (strage) pur senza volerlo: intanto i ragazzi d'Italia ci piangiucchiano sopra. E per Padova, dove serpeggia una bella petrarcomania, tanto che persino la squadra di rugby e' intitolata a Petrarca, sara' un duro colpo. Ma, piano: qualche altra autorita' filologica non meno competente dei negatori sosterra' le folle che non vogliono privarsi, ne' qui ne' per l'universo mondo, della "presenza reale" di Laura nella storia e nell'eucarestia poetica. La fortuna critica di Petrarca, comunque, vive piu' che mai, tanto che anche Paul Celan, uno dei massimi poeti del nostro tempo, di lingua tedesca, ebbe a dire che "Petrarca e' di nuovo in vista". E provenendo da un tale impervio e torturato osservatorio e' questa un'asserzione che chiama a rimeditare il senso stesso che puo' avere oggi la poesia. Se fu numerosa la schiera dei grandi che passarono di qui, per rinsanguarsi nella fede loro, da Alfieri a Shelley a Byron, occupa, si sa, un suo forte spazio Ugo Foscolo: che si lancia di corsa attraverso i Colli scavalcando siepi e crinali, portandosi in tasca il libro delle rime sparse, o che sale "alla sacra casa di quel sommo italiano". Con l'amata e negata Teresa la' "si prostra" Jacopo il suicida protagonista dell'Ortis, in cui parzialmente si cela l'autore stesso. Ma di fatto i cari Colli, o corrispondendo o incantando, medicarono a Ugo le sue tristezze erotico - politiche. E chissa' a quanti altri. Un giorno di grigia primavera ci si aggirava in auto lentamente entro la ressa delle figure tutte, pur se vagamente coniche, tondeggianti, quando a una svolta ci si pararono davanti tre coni geometricamente perfetti, protesi, impeccabilmente appuntiti, di un colore lavico - cinereo da lasciarci di sale. Apparivano, "erano", quei coni, sicuri di una loro nobilta' garantita dai milioni di anni, noncuranti eppure alquanto subdoli, da figli dell'impossibile. "Ecco la Trimurti Euganea!". In Marco e in me si era annunciata simultaneamente questa folgorata, secca sorgente del divino, presente da sempre eppure solo in quel momento manifesta. Rimasti a lungo in contemplazione e vorrei dire in preghiera, decidemmo di ritornare con piu' calma e prestissimo sul luogo. Buttai giu' uno schizzo approssimativo che rincorreva invano l'esattezza ripida e severa, la superbia sottile e capricciosa di quelle entita'. Ritornammo tante volte e non le reincontrammo mai piu'. Pareva che... ma no... si affacciavano somiglianze parziali, graffi di delusioni. Non restava che sperare in un altro tic degli dei. In realta' questi sono fenomeni che si formano continuamente in qualunque sito, specie tra i monti: vi interferiscono di continuo ore, luci, stagioni, minuzie che ci fanno desolatamente sentire come nulla vi sia di stabile, come tutto cambi anche se immoto, perche' tutto e' proiettato all'irraggiungibile in - se'. E cosi' avviene a maggior ragione per l'animo umano, i volti umani anche piu' amati; tutti sono i soliti uno - nessuno - centomila, tutto era e sara' paesaggi diffratti e ricomposti a colpi d'ala o soffi piu' o meno ludici, piu' o meno carezzevoli o maligni. E Yves Bonnefoy torna a dirci che "i luoghi, come gli dei, sono i nostri sogni". Tra i punti emergenti famosi sui Colli come il giardino con la grande villa e il labirinto di Valsanzibio, il castello del Cataio o l'abbazia di Praglia, notissima per gli studi e le attivita', tanti sono gli snodi o i nodi quasi gordiani creati dalle movenze collinari o dai costoni dirotti o anche da sistemazioni di varia specie urbanistica che sbucano dovunque. Ma - come al polo opposto di questo spazio e tempo - vale soffermarsi sul bacone di Teolo, in un'anticipazione di chissa' quale avvenire di apparecchi sempre piu' ossessionanti nel creare precisioni di pixel o aperture di compassi onnidirezionali sull'infinito. Nel Centro sperimentale idrologico e meteorologico regionale si registra, si prevede ogni moto atmosferico entro titillanti fulgori e cromatismi di computer e vien reso il continuo fremere dei cieli, raccolto simultaneamente in tutta la regione da centinaia di stazioni di rilevamento, situate nei punti piu' vari, stazioni la cui sensibilita' resta talvolta annullata magari da un sacchetto di plastica lasciato da qualche agricoltore sugli "occhi dell'apparecchio". E la' gli studiosi, ciascuno adibito a particolari competenze, pronosticano, in parcellizzazione millimetrica e precisione di minuti e secondi, disastro o sereno, qua o la', in modo che nel caso si possano disporre i migliori accorgimenti di prevenzione in tempo giusto. A che ora esatta lo spettacolo dell'Arena deve partire o essere interrotto, o ripreso senza danni? Quelli di Teolo lo sanno dire... Ecco, e' notte. Il valente giovane scrittore Giulio gode la discesa in bicicletta dalle alture verso Padova, il cui cielo comincia a sfolgorare per uno spettacolo pirotecnico. Forse egli torna dalla popolare "Sagra delle giuggiole" di Arqua'... Giulio scivola in giu' contento, sostenuto dal suo sano fraseggiare, dal suo buon italiano, puo' buttarsi avanti quasi nel vuoto. "Sente" forse che tutto potrebbe resistere se resiste la fede nella lingua?

Zanzotto Andrea

Pagina 31, 28 settembre 1997, Corriere della Sera

Zorzi: "Ma il nostro orgoglio e' nella Serenissima"

Zorzi: "Ma il nostro orgoglio e' nella Serenissima"
In tanto affannarsi per gli schei, il Veneto e il Friuli d' oggi, si dice, hanno smarrito la memoria delle radici. Piu' il Veneto che il Friuli, che rivendica con fierezza l' originalita' della sua lingua e l' antica indipendenza: oggi molti veneti ricordano le proprie origini rurali (e' stato applicando all' industria le virtu' contadine che il Nord Est e' passato in mezzo secolo dalla condizione di area depressa all' attuale prosperita' ) con orgoglio ma anche con infastidita ritrosia, come se volessero cancellare i ricordi durissimi della miseria e dell' emarginazione. Figuriamoci dunque se puo' sopravvivere, fra tanti ricordi cancellati, quello lontano della dominazione austriaca: alla quale un luogo comune duro a morire si ostina ad attribuire l' origine delle qualita' che solitamente si concedono ai veneti, onesta' , laboriosita' , serieta' , tenacia, rigore morale. Come se bastassero sessant' anni in tutto, quanto e' durata quella dominazione, a formare il carattere di un popolo. La presenza austriaca non era stata continuativa. Dopo la prima fase, durata otto anni appena, il ritorno dell' aquila bicipite nel 1814 era stato visto con sollievo dal popolo che non ne poteva piu' delle leve in massa e dell' oppressione fiscale del Regno Italico di Napoleone; e nei 34 anni seguenti e' certo che la rigorosa correttezza dell' amministrazione, la bonta' del sistema educativo e la serieta' di quello giudiziario furono alquanto apprezzate dalla maggioranza. Fra l' altro, fu proprio l' Austria a congiungere per la prima volta Venezia alla terraferma col ponte ferroviario e a largirle il privilegio del porto franco. La rivoluzione del 1848 mando' tutto all' aria. E il popolo non fu da meno delle elites liberali nel combattere gli austriaci. Il rapporto tra i veneti e l' Austria ne rimase incrinato, anche se non mancavano coloro che nella monarchia absburgica continuavano a vedere il baluardo della legge e dell' ordine. Il rapporto si incrinera' poi del tutto nel 1917, davanti all' invasione di truppe fameliche nelle quali, peraltro, gli austriaci veri erano una minoranza. La storia del Veneto si rifa' , comunque, a ben altre memorie, allo splendore dei grandi Comuni e delle grandi signorie, gli Scaligeri a Verona, i Carraresi a Padova. E, soprattutto, la gran luce della Serenissima. Le impronte di quel regno lungo quattrocento anni segnano tuttora profondamente quella terra, soprattutto nella civilta' che ha scolpito i caratteri fondamentali di quel popolo. Il quale va riscoprendole adesso, le radici. Il bicentenario della caduta della Serenissima e' stato vissuto dalla gente veneta assai piu' sentitamente di quanto ci si poteva aspettare. Nel paesaggio sentimentale dei veneti, dominato dal Leone marciano, potra' cosi' trovare spazio e giustizia anche l' aquila imperiale.

Zorzi Alvise

Pagina 33, 21 gennaio 1999, Corriere della Sera

Sulle acque venete c' e' una dea, Reithia

Gli archeologi contro il mito del Po
Sulle acque venete c' e' una dea, Reithia
VENEZIA . Era una dea, non un dio, la divinita' che tutelava le acque sacre agli antichi veneti. Incisa a sbalzo su una lamina circolare di bronzo che risale al quarto secolo a.C., coperta da un manto e con in mano un fiore che si schiude, Reithia, la divinita' paleoveneta arcaica, e' da oggi in mostra nella basilica paleocristiana di Concordia Sagittaria (Venezia). La figura mitologica, analoga a quelle gia' rinvenute, era ritenuta dagli abitanti del Veneto antico tutelatrice delle acque e del parto, delle piante e degli animali. Una divinita' forse autoctona, cui poi si sovrapposero influenze celtiche e colonizzazione romana. Il disco bronzeo di Reithia e' stato rinvenuto in un pozzo santuario nel Veneziano, in localita' Millepertiche di Musile di Piave, nel corso di una campagna di scavo del Gruppo Archeologico di Meolo. Si tratta del pezzo principale dell' esposizione "La protostoria tra Sile e Tagliamento", promossa dalla Soprintendenza Archeologica del Veneto e dalla Soprintendenza ai Beni Ambientali, Architettonici, Archeologici, Artistici e Storici del Friuli Venezia Giulia in concorso con le Province di Venezia e di Pordenone e il Comune di Concordia. Per la soprintendente veneta Pierangela Croce Da Villa, il santuario da cui proviene l' immagine di Reithia era "un' importante tappa votiva delle antiche comunita' venete del territorio".


Pagina 4, 15 settembre 1996, Corriere della Sera

La leggenda di Venezia al principio del mondo

MITI L' autore di «Mediterraneo» riscopre il mare Adriatico
La leggenda di Venezia al principio del mondo
Matvejevic alle sorgenti della «città inverosimile»

Dopo il «breviario» sul Mediterraneo, ecco quello sulla sua città più suggestiva ed emblematica, Venezia, colta nel precario equilibrio storico tra Oriente e Occidente: così Predrag Matvejevic affronta ne «L' altra Venezia» quell' insieme di storia, monumenti, leggende che l' hanno resa unica. Pubblichiamo di seguito alcuni brani del volume edito da Garzanti (pagine 126, euro 11) e in libreria dal 2 maggio di PREDRAG MATVEJEVIC
A proposito della storia di Venezia, essa è già scritta e non so che cosa si potrebbe aggiungere ancora a quanto è stato già detto. In questi luoghi (scrivo queste pagine sull' isolotto lagunare di San Giorgio in Alga), nei tempi remoti si trovavano letti fluviali: ne sono rimaste le tracce nei canali. Non solo del Piave o del Brenta, ma anche dei corsi più modesti, del Dese o del Sile. I fiumi disperdevano o raccoglievano la terra, dividevano e riunivano la Laguna. Non sappiamo affatto quali specie di separazioni e di accostamenti furono quelle fra gli elementi della terra e dell' acqua. Come i primi abitatori di queste terre arrivarono dalla loro patria di origine, portando con sé visioni e abitudini delle terre solcate probabilmente dalla Vistola o bagnate dal Mar Baltico. Si fanno supposizioni e congetture, ma i ricordi sono sempre scomparsi, sommersi. Gli stessi ricercatori, quando vengono poste loro queste domande, si contraddicono. Sappiamo con certezza solo poche cose: che gli antichi veneti, prima di diventare veneziani, scelsero il mare giusto, l' Adriatico. Nei tempi remoti fu chiamato Mare superum, Mare superiore o alto, mentre dall' altra parte della penisola appenninica, il Mar Tirreno fu detto Mare inferum, Mare inferiore. Anche lo Jonio era considerato talvolta appena una parte o un golfo dell' Adriatico stesso. All' epoca in cui san Paolo prese il mare iniziando il suo viaggio ecumenico dalla Terrasanta verso la città eterna, il mare di Adria si estendeva fino a Creta e a Tunisi, alla Sicilia e a Malta. O almeno così lo intendeva e affermava san Luca negli Atti degli Apostoli (capitolo 27). Le parole del Vangelo diedero all' Adriatico dimensioni esagerate. Sulla sua sponda orientale nacque san Girolamo, a Stridone, città distrutta poi dai barbari, sicché di essa non sono rimaste nemmeno le rovine; e si ignora perfino il luogo in cui sorgeva. Sarebbe arrischiato affermare che i primi abitatori della Laguna abbiano voluto seguire le Sacre Scritture allargando il loro golfo. L' intero Mare Adriatico finì comunque per chiamarsi Golfo di Venezia. Lo chiamarono così amici e nemici della Serenissima. Anche il cronista turco Evli Kelebi, conosciuto in Bosnia col nome di Evliya Celebi, nel suo diario di viaggio Seyyahatnamesi preferì scrivere Vedenik Körfesi (Golfo di Venezia, appunto) invece di ricorrere al prestito persiano Korfez Deryasì. Nei tempi, la Laguna è stata perigliosa e salvifica. I nuovi arrivati veneti avevano compreso il triste destino abbattutosi sulla vicina Aquileia, che a suo tempo era stata definita la «Seconda Roma», vittima delle distruzioni barbariche. I suoi abitanti l' abbandonarono, rifugiandosi nell' isolotto di Grado per potersi salvare e difendere, ma alle loro spalle restarono squallore e lutto. Neppure (H)adria se la passò meglio. A quella città litoranea facevano capo le vie del sale, del grano, dell' olio, dell' ambra, dello stagno e di molti altri prodotti; era tanto importante che dal suo prese il nome l' Adriatico intero. Ma le città sui fiumi difficilmente riescono a sottrarsi alle catastrofi. I rami del Po hanno poi separato per sempre Adria dall' Adriatico, colmando con i loro depositi alluvionali le vie dell' acqua, tagliando gli accessi al mare della città, recidendo i suoi legami col mondo: il Po di Levante e di Maistra, le Bocche di Po, Pila, Tolle, Goro, Gnocca... Gli antenati dei veneziani compresero subito che il Brenta e l' Isonzo non erano così spietati e che era possibile evitare il destino di Adria. Erano al corrente che i barbari non sapevano o non amavano nuotare. Sapevano che l' acqua e il mare, il terreno fangoso e insicuro avrebbero potuto salvarli dalla sventura che si era abbattuta su Aquileia. Comincia così la storia o il racconto di Venezia e della sua Laguna. (...) Alla stregua degli olandesi, i veneziani sono stati costretti a strappare la terra al mare, un pezzetto alla volta, per poter restare sulla terraferma, o semplicemente all' asciutto. È stato questo sforzo, molto verosimilmente, a fargli conoscere meglio i rapporti fra terra e mare. Le loro carte prendono Venezia come punto di partenza per creare un' altra immagine di Venezia, più o meno diversa da quella dell' inizio ma altrettanto memorabile. Queste carte sono in diretto rapporto con la conquista della città stessa, i suoi possedimenti, vicini e lontani. Senza di loro non sarebbe stato possibile imporre l' egemonia sul mare né conservare l' autorità sulle acque e terre. Nelle botteghe, perciò, lavorava insieme la gente di varie competenze - geografi e disegnatori, tipografi, stampatori, incisori, editori; nonché i mercanti e i loro aiutanti, i venditori e i loro garzoni, artisti famosi e artigiani anonimi. (...) Le immagini, i paesaggi, gli ambienti, le architetture, le forme e le figure, le immagini di nuovo - esse vengono all' inizio e alla fine! La scena è unica, cambiano le scenografie. Non si offrono prospettive a volo d' uccello, mancano le alture. Il campanile di San Marco non è una piramide. I panorami inventati vanno armonizzati con le dimensioni reali. Osservare da vicino o da lontano, in uno sguardo d' insieme o in momenti diversi - sono le alternative, inevitabili e provocatorie, che spesso si escludono a vicenda. Alla fine, come all' inizio, il comune denominatore di tutti gli approcci e procedimenti è sempre Venezia, «la città la più inverosimile che sia» e la sua Laguna.

Matvejevic Predrag

Pagina 21, 28 aprile 2003, Corriere della Sera

La nave che salvò Venezia bambina

SCOPRITE IL LUOGO
La nave che salvò Venezia bambina

Come Mosè fu abbandonato fra le canne del Nilo, così un' isola nascosta della laguna protegge una Venezia bambina. «Nave» fu chiamata la Cattedrale costruita nel VII secolo su quell' isola dai superstiti di Altino distrutta dai Longobardi. Tale nome conveniva alla chiesa di una comunità che aveva scelto di vivere sull' acqua. Ancora oggi lo scafo di quella «nave» è là, poggiato sugli inconsistenti, scivolosi fanghi delle barene: meraviglioso palinsesto che, con le sue strutture, i suoi paramenti musivi, i suoi plutei, i suoi capitelli, i suoi rilievi marmorei carolingi o bizantini racconta la storia di una Venezia parallela: una Venezietta rimasta fedele agli orti e alle barche, e avvolta lungamente dal silenzio e dallo sciacquio della laguna. Qui per secoli non ci furono che pescatori e contadini: finché qualcuno aprì una locanda, e allora vennero Hemingway e Chaplin, Maria Callas e Toscanini, Carlo e lady Diana, i miliardari, le star. La risposta è: Torcello

Mariotti Giovanni

Pagina 31, 29 luglio 2003, Corriere della Sera

Jesolo: Rito del Giorno Pagano Europeo della Memoria 2008

Bati Marso 2008 - Batti Marzo - fiaccole

Bati Marso 2008 - Batti Marzo - fuoco

Bati Marso 2008 - Batti Marzo - in movimento

Bati Marso 2008 - Batti Marzo 2008 - In cammino

No Dal Molin in campo per «Vicenza libera»

No Dal Molin in campo per «Vicenza libera»

di Orsola Casagrande

su Il Manifesto del 11/03/2008

Discussioni durate notti intere, giornate passate a confrontarsi con la città. Poi la decisione: le elezioni comunali non possono essere ignorate. E il movimento contro la base militare Usa si candida. Con una lista e un simbolo. Per una politica nuova

È stato un dibattito lungo, a tratti difficile, decisamente molto partecipato. Riunioni accanto al fuoco, anche fino a tarda notte. Al presidio permanente no Dal Molin da due mesi si discute delle prossime elezioni comunali. «Un evento - dice Marco - che attraversa la città, che riguarda la città, con il quale piaccia o non piaccia bisognava rapportarsi, misurarsi». E scegliere. Decidere se stare dentro o stare fuori. Se ignorare l'evento (ma l'ipotesi è stata scartata fin da subito) o se invece ragionare (e questa è stata alla fine l'idea prevalente) su come affrontarlo. Dicendo la propria, ascoltando e facendosi ascoltare, mantenendo indipendenza e autonomia, .
Alla fine una decisione è stata presa: il presidio no Dal Molin parteciperà alle elezioni comunali con una propria lista, un proprio simbolo, un proprio candidato sindaco. La lista si chiamerà «Vicenza libera» e più eloquente di così non poteva essere. Il dibattito però non è concluso. Anzi, è soltanto all'inizio. E dal presidio viene rilanciato al movimento in tutta Italia. Perché il nodo da sciogliere rimane quello di come stare nelle istituzioni pur rifiutando il principio della delega. Non un percorso facile, ma certamente un percorso che si vuole condiviso. Se ci saranno consiglieri eletti non saranno portavoce e nemmeno «delegati», saranno piuttosto uno strumento in più per la comunità. In altre parole i candidati del presidio non chiederanno una delega ai cittadini, ma si metteranno a disposizione dei cittadini, non tanto e non solo per portare in consiglio comunale le eventuali istanze, gli input provenienti dall'esterno. L'obiettivo è quello di continuare a lavorare insieme. Chi sta dentro cercherà di capire come far avanzare le istanze che provengono dall'esterno, di quali strumenti si potrà dotare il fuori.
«E' chiaro - dice Marco - che il dibattito rischiava e continua a rischiare di essere appiattito su schemi tradizionali, lista sì o lista no, il movimento che entra nelle istituzioni e quindi perde o rinuncia a qualcosa. Inizialmente - continua Marco - anche nelle nostre riunioni si affrontava la questione con lenti antiche. Ma più il tempo passava, più si facevano assemblee, più si è cominciato a capire che bisognava fare un salto in avanti, uscendo dalle vecchie logiche per traslare invece le nostre pratiche anche all'interno delle istituzioni». Assemblea dopo assemblea, intervento dopo intervento, sempre più si è fatta strada la consapevolezza che in gioco non c'era la «verginità» del movimento. Più che altro si trattava di capire se «le elezioni comunali potevano essere usate come opportunità, come occasione. Una sfida certamente - sottolinea Marco - ma vogliamo provare a scardinare e modificare i meccanismi della rappresentanza tradizionale che è in crisi». Provare a rompere, dunque, un meccanismo per portare anche all'interno delle istituzioni le pratiche che hanno attraversato e caratterizzato il movimento no dal Molin, e non solo quello. Il tentativo allora è quello di provare un percorso, sperimentare. Per dimostrare che la delega non è l'unica soluzione possibile. Anzi, l'ambizione è proprio quella di far vedere che la comunità può lavorare nelle e con le istituzioni senza soluzione di continuità, un osmotico scambio. Dove non c'è distinzione tra il «dentro» e il «fuori». Lo ricorda Francesco, «l'esperienza dell'Altro Comune per noi è importante. Non sappiamo ancora bene come renderla pratica in un'arena politica già costituita, ma ci proveremo». Perché lo scopo è quello di «rompere un perimetro, usare il terminale comune come strumento di lotta».
E' chiaro che la strada è tutta in salita. Altri movimenti, in altre parti d'Italia (pensiamo al capofila delle lotte in corso, il popolo no Tav), hanno fatto scelte diverse. E a questi movimenti i no Dal Molin si rivolgono per aprire un dibattito, chiedono di confrontare pareri, opinioni. Collaborazione anche nell'elaborazione di un percorso che è ancora tutto da scrivere. Qualche idea c'è già. Per esempio, tanto per provare a tradurre in pratica i molti interventi «teorici» delle assemblee: se un quartiere vuole una pista ciclabile, l'idea dei no Dal Molin è quella non di chiedere all'eventuale consigliere di fare pressioni in consiglio per realizzarla. Armato di vernice gialla e pennello, il consigliere, con i cittadini andrà a dipingersela quella pista ciclabile. Le assemblee sono state davvero molto partecipate, a testimonianza di quanto comunque questo tema delle elezioni comunali sia sentito. Il presidio a un certo punto si è fatto «assemblea permanente» proprio per fare in modo che tutti potessero esprimersi. C'erano anche trenta interventi a serata. Giorno dopo giorno, sera dopo sera «ci siamo riuniti in piccoli gruppi per ragionare, discutere, elaborare». Adesso si è entrati nella fase operativa, da una parte c'è la preparazione delle liste e dall'altra l'elaborazione del percorso da seguire. E poiché ascoltare è il tratto distintivo della «piazza presidio», in questi giorni in cui con trenta gazebo sparsi per la città si raccoglievano le firme di solidarietà con i «presidianti» denunciati per l'occupazione della prefettura, si è chiacchierato e chiesto pareri con le migliaia di cittadini che passavano e si fermavano a esprimere la loro solidarietà. E' stato distribuito anche un questionario per capire come la città percepisce il presidio e l'eventualità di un ingresso in consiglio comunale. Sono tornati alla base ben tremila questionari compilati. Tanto per dire, alle primarie per il partito democratico hanno votato circa tremila persone. La maggioranza degli interpellati vede con favore un impegno del presidio anche in comune. «Abbiamo voluto - dice Cinzia Bottene - interpellare la città, perché decidere insieme è stato sempre il nostro modo di fare politica. E' un modo faticoso - insiste Bottene - ma affascinante. Vogliamo portare il nostro contributo anche all'interno delle istituzioni, diventando strumento per i cittadini che hanno seguito il nostro approccio: oltre alla critica bisogna anche saper costruire. Questa è la sfida che ci troviamo di fronte».

Venezia, già Disneyland 300 anni fa

Corriere della Sera 12.3.08
Da un dipinto del Canaletto a una foto odierna: lo sguardo di uno scrittore
Venezia, già Disneyland 300 anni fa
Nel '700 non contava più nulla e puntò sull'immagine. Il destino dell'Italia?
di Tiziano Scarpa

Mettete a confronto queste due immagini. Apparentemente le differenze sono molte. I capannelli di uomini in tabarro e parrucca nel dipinto di Canaletto potrebbero essere nobili che tessono alleanze politiche a due passi dal Palazzo Ducale, prima di una votazione del governo della Serenissima. Quelli nella foto sono turisti che ascoltano una guida e rimirano il panorama della Giudecca sulla linea dell'orizzonte. Le navi che affollano il bacino san Marco nel dipinto di Canalettto trasportano merci, mentre i vaporetti contemporanei trasportano turisti. Il fermento produttivo odierno sembra ridotto alla manutenzione dell'esistente; le impalcature sulla cupola della Basilica della Salute e le gru non stanno costruendo nulla di radicalmente nuovo: restaurano. Quella di Canaletto è una città viva; quella della foto scattata in questi giorni è una città fossile. Eppure, le due immagini sono molto più vicine nella sostanza di quanto possano far pensare i tre secoli che le separano. La Venezia di Canaletto fa il primo passo di quell'itinerario storico che sta percorrendo ancora oggi. In queste due vedute è ben riassunta la sorte di una città del tutto speciale, ma forse anche il destino di un'intera nazione, l'Italia. Diventare un posto che a poco a poco venderà soltanto gite, vacanze, pellegrinaggi culturali, senza produrre nient'altro che la propria immagine.
Mentre Canaletto dipinge, in giro per gli oceani i grandi stati europei razziano, impiantano colonie, commerciano, accumulano ricchezze enormi. Venezia ha perso da tempo l'egemonia persino sul suo piccolo mare. Nel Mediterraneo orientale, le navi mercantili inglesi e addirittura tedesche sono più numerose di quelle veneziane. È in quei decenni che Venezia diventa una specie di laboratorio postmoderno ante litteram, un'avanguardia dell'intrattenimento: qualcosa a metà fra Las Vegas, Hollywood, Disneyland, Broadway, Pompei e una savana abitata da indigeni pronti a fare la danza della pioggia a comando davanti alle macchine fotografiche dei turisti. Venezia commercia sempre meno, ma si inventa una merce nuova: sé stessa. Comincia a vendere spasso, case da gioco, prostituzione, spettacoli di alto livello culturale, concerti e opere liriche nei primi teatri al mondo aperti pubblicamente a spettatori paganti. Venezia inventa la società dello spettacolo.
È una strategia di sopravvivenza. Ma per non morire il prezzo da pagare è alto. Il drastico ridimensionamento delle ambizioni politiche è arcinoto; dopo la scoperte del Nuovo Mondo, che cosa è successo lo sanno anche i bambini delle elementari. In arte, la città diventa sempre più autoreferenziale. Finora abbiamo dato uno sguardo ai dettagli del dipinto di Canaletto. Ma domandiamoci innanzitutto perché esiste un'immagine simile, che cosa l'ha prodotta. Prima di Canaletto, Venezia aveva espresso artisti dal profondo contenuto filosofico, pittori teologi che avevano dato la loro interpretazione personale delle ideologie al potere: Carpaccio, Bellini, Giorgione, Tiziano, Veronese. Da Canaletto in poi invece Venezia sembra ripetere sempre la medesima parola: Venezia, Venezia, Venezia. I committenti forestieri richiedono all'arte e alla cultura di questa città di recitare sé stesse. Dalle architetture agli abitanti, tutti debbono mettersi in posa per il souvenir. Non è un caso che Canaletto utilizzi la camera ottica, un dispositivo per schizzare con maggiore fedeltà il panorama: è il capostipite delle migliaia di fotografi turisti, il fondatore del paesaggio come cartolina. All'artista non si richiede più la potenza di un'idea visionaria, ma una rappresentazione quanto più accuratamente dettagliata, in modo che il visitatore forestiero possa indugiare nelle decine di piccoli particolari, godendosi il colore locale della città, le sue idiosincrasie graziosamente complesse.
Chi è che sta guardando il dipinto di Canaletto? Qual è lo sguardo che, pagandola, ha generato questa immagine? Rispondere che si tratta dei prototuristi, i ricchi girovaghi del Gran Tour, non basta. È la nuova civiltà dell'Europa continentale che contempla Venezia, sentendosi ormai superiore a questa città decaduta economicamente e politicamente: può permettersi di chiederle di mettersi in posa, di impersonare tutte le sue peculiarità sociali così deliziosamente bizzarre, così innocuamente sorpassate. In una parola: la esotizza. Questo quadro è una vendetta dell'Europa su Venezia.
Un altro dettaglio accomuna il dipinto e la foto. È uno dei simboli massimi della venezianità, elegantissimo o sommamente lezioso, a seconda dei gusti: la gondola. Mezzo di trasporto funzionale, capolavoro di ingegneria nautica, all'epoca di Canaletto ha già cominciato a intridersi delle caratteristiche folcloristiche che finiranno per avere il sopravvento. Che meta offre, oggi, la gondola, se non sé stessa? I veneziani come me obietteranno giustamente che esistono ancora le gondole che per cinquanta centesimi di euro ti portano dall'altra parte del Canal Grande, in due minuti. Ma le gondole che tutto il mondo conosce sono quelle che offrono un'esperienza estetica quasi autistica: non servono a trasportare da un punto all'altro, ma a far provare l'emozione di andare in gondola, c'est tout. È il destino di Venezia, o dell'Italia intera?
❜❜ L'Europa si vendicò della Serenissima e la costrinse a mettersi in posa. Nacque così l'idea di una città postmoderna Ieri e oggi

Vivaldi, gli ultimi fuochi del teatro

Corriere della Sera 12.3.08
L'altra mostra. I manoscritti del musicista che collaborò con il pittore veneziano
Vivaldi, gli ultimi fuochi del teatro
di Gianfranco Formichetti

Palazzo Bricherasio ospiterà dal 23 aprile all'8 giugno anche una mostra dedicata ad Antonio Vivaldi, nella quale verrà esposta una parte dei suoi manoscritti conservati nella Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino (27 volumi con circa 450 composizioni). Gianfranco Formichetti, autore del libro «Venezia e il prete col violino, vita di Antonio Vivaldi» (Bompiani) spiega il legame tra il compositore e il Canaletto: due stelle complementari nello splendore della Serenissima del '700.

Giovan Antonio Canal, detto il Canaletto, lavorò dal 1717 al 1720 al Teatro Sant'Angelo insieme al padre Bernardo, nelle scenografie del palcoscenico gestito da Antonio Vivaldi. Non tutti sanno che il Prete Rosso, protagonista assoluto della musica veneziana del primo Settecento, fu un brillante manager teatrale, capace di mettere in atto ogni strategia pur di ottenere successo.
Nel 1637 a Venezia era nato il San Cassiano, primo teatro per musica destinato a un pubblico pagante. Una novità assoluta per il mondo dello spettacolo. Nei libretti si sottolineava la spettacolarità della rappresentazione, la grandiosità delle scene, la bellezza dei costumi, la magnificenza delle macchine. Che lo sforzo imprenditoriale raccogliesse risultati sorprendenti si capì subito: nel giro di un quinquennio i teatri divennero quattro. E la concorrenza si fece accanita. Ogni gestore si preoccupava di organizzare un calendario in grado di riscuotere il massimo successo. La conquista del pubblico faceva riferimento a vere e proprie stagioni, con la speranza di quante più repliche possibili.
Il Sant'Angelo fu il laboratorio operistico di Vivaldi, con più di cinquanta melodrammi al suo attivo; quello più strettamente musicale fu l'Ospedale della Pietà, che cominciò a frequentare giovanissimo, nel 1703, appena ordinato prete. Aveva quasi subito smesso di dir messa, attratto più dalla musica che dall'altare.
Le «putte rosse» della Pietà erano le sue allieve. Per formare la sua orchestra aveva potuto fare una selezione tra un migliaio di orfanelle che il governo cittadino e la benevolenza dei nobili facevano vivere più che dignitosamente in questo «Ospedale», dove l'assistenzialismo si coniugava con la formazione professionale. Orchestra e coro allietavano con i loro concerti domenicali e festivi il bel mondo veneziano e i numerosissimi turisti ammaliati dalla Serenissima. La musica era una presenza costante e viva nella quotidianità lagunare. Le formazioni musicali trovavano spazio per esibirsi nelle numerosissime ricorrenze festive e celebrative. Quando Vivaldi salì alla ribalta della Laguna, la cultura dello spettacolo annoverava, oltre ai dieci teatri ufficiali, numerose case private che si trasformavano in «luoghi di recita e di musica», a volte perfino clandestini. Al ponte di Rialto, nel mercato di frutta e verdura più importante della laguna, si potevano trovare banchi con ceste piene di spartiti musicali. Ben diciassette erano a Venezia le stamperie specializzate in questo settore.
Lo scenario europeo mostrava le avvisaglie del grande rivolgimento che avrebbe caratterizzato il Settecento. I Veneziani sembravano coscienti della fine di un'epoca che li aveva veduti protagonisti e al cambiamento che li stava emarginando si apprestavano a opporre quel fiorire della società dello spettacolo che tanto avrebbe colpito i visitatori. Capitale del bengodi intellettuale, in quegli anni Venezia divenne una sorta di grande ammaliatrice del bel vivere europeo. Capace di offrire un connubio di arte e musica come nessuna città al mondo.

Canaletto e Bellotto. Cartoline di famiglia

Corriere della Sera 12.3.08
Canaletto e Bellotto. Cartoline di famiglia
di Francesca Bonazzoli

Giovanni Antonio Canal, detto «il Canaletto», nacque a Venezia nel 1697. Iniziato dal padre alla scenografia, fu influenzato in seguito dalle opere di Van Wittel edi
Carlevarijs. È considerato l'artefice della grande fortuna del vedutismo veneto del Settecento. Morì nel 1768
Veneziano, classe 1721, Bernardo Bellotto era figlio di una sorella del Canaletto e dallo zio apprese l'arte di ritrarre vedute di città e di paesi. Si distinse dal maestro per una visione più attenta ai particolari, a tratti lievemente malinconica. Morì a Varsavia nel 1780

Quella di Antonio Canal, detto il Canaletto, e di suo nipote Bernardo Bellotto sembra una storia di oggi: tecnicamente bravissimi, originali nei temi, moderni nell'uso della camera ottica che si inseriva nelle novità della cultura illuministica, i due pittori furono però costretti a lavorare per i collezionisti stranieri e persino a emigrare per vivere.
La Venezia dei parrucconi, che aveva i suoi tromboni ben piazzati anche nell'Accademia di Pittura e di Scultura, continuava a professare la vecchia teoria che assegnava la superiorità alla pittura di figure e si teneva attaccata agli ultimi fasti del Barocco con i suoi trionfi di colori pastello, riccioli, volute e fiabe mitologiche che Tiepolo elargiva a piene mani senza più nemmeno crederci lui stesso. Per fortuna gli inglesi, più presi dalla razionalità di Newton che dalle teatrali messe in scena dei preti, intuirono nelle vedute ottiche di precisione del Canaletto la ricerca di una verità che si basava sullo stesso metodo della nuova scienza sperimentale , autonomo da ogni ipotesi filosofica o teologica.
Così Canaletto, vendendo soprattutto i suoi quadri ai facoltosi turisti del Grand Tour e tramite il console inglese a Venezia, Joseph Smith, che li smistava ai vari duca di Bedford, duca di Richmond, conte di Wicklow, conte di Carlisle, duca di Northumberland, poté vivere bene nonostante i rancorosi colleghi che lo ammisero all'Accademia solo nel 1763, a 66 anni, quando ormai non gliene mancavano che cinque alla morte.
A 49 anni partì per l'Inghilterra (dove rimase dieci anni), mentre il Bellotto, figlio di una sua sorella, a 26 anni emigrava a Dresda, dove, alla corte del re Augusto III di Sassonia, dipinse i suoi capolavori e spese quasi vent'anni della propria vita per andare poi a morire a Varsavia alla corte di Stanislao Augusto Poniatowski.
Ecco perché i quadri e i disegni più belli dei due vedutisti veneziani si trovano all'estero, in collezioni private e musei, da cui sono stati richiamati a Torino (in tutto un centinaio di lavori fra tele e carte) per la mostra di Palazzo Bricherasio che mette a confronto serrato zio e nipote nel tentativo di dissipare i dubbi attributivi che ancora restano su diverse opere risalenti al periodo in cui i due lavoravano fianco a fianco.
Non sono pochi i lavori ancora classificati sotto il nome di Canaletto che la curatrice Bozena Anna Kowalcyz propone di restituire al nipote e del resto lo stesso Bellotto (che era conosciuto in Germania come «il Canaletto ») non si era certo preoccupato di distinguersi dallo zio visto il successo di cui questi godeva: una delle due vedute di Torino dipinte per Carlo Emanuele III, per esempio, è firmata sia con il suo nome e cognome che con il soprannome «il Canaletto ». Certo, quando poi i due si separarono, nel 1743, la loro differenza si farà grande ed evidente, ma già negli esordi di Bellotto si possono scovare quegli indizi che diventeranno la sua cifra stilistica: in particolare quella sua predilezione per le ombre scure che lo faranno definire «l'ombra nera di Canaletto».
Se la Venezia del Canaletto, infatti, ha i toni luminosi di una festa galante, quella di Bellotto suscita emozioni più austere, come la musica di Bach in confronto a quella di Vivaldi. Nel giovane nipote non ci sono mai quel languore e quella febbre che in Canaletto svaporano nella dolcezza di un pomeriggio afoso o in un attimo frizzante di felicità. La luce del Bellotto è sempre fredda, come in un terso mattino in montagna dove i cieli sembrano orli di cristallo. L'intonazione, poi, dall'indefinibile qualità argentata, ha un che di malinconico, con quelle ombre profonde, bistrate, incise con la punta di legno del pennello per farne dei solchi neri dove la luce batte in modo irregolare e vibrante restituendo pesantezza, volume e spessore alle cose, quasi persino il loro odore.
Lontano dallo zio, la metamorfosi che Bellotto compie nella solitudine del Nord Europa, si fa poi totale, fino ad abbandonare la veduta da cartolina e come una farfalla che liberi le ali dalla sua crisalide, Bellotto allenta lo stile calligrafico e diligente per aprirsi a un fraseggio monumentale. Le grandi tele di Varsavia sono un corpo a corpo con la natura come lo ingaggeranno solo i francesi nell'Ottocento. Eppure, come già lo zio Canaletto fu assediato dal Barocco, così Bellotto lo sarà dal nuovo gusto neoclassico: lui che registrava solo ciò che vedeva verrà alla fine considerato inferiore rispetto ai pittori che davano priorità a fantasia e invenzione e finirà per trovarsi nella stessa situazione di Monet cent'anni dopo quando anche di lui Cézanne disse: «Non è che un occhio».
In un'Italia ancora in preda ai fremiti del barocco, la pittura scientifica di zio e nipote fece successo tra i viaggiatori del Nord. Ora un'esposizione mette a confronto il loro talento
Due visioni del Ponte di Rialto A sinistra il dipinto del Canaletto con i toni luminosi, a destra quello del nipote Bernardo Bellotto: la luce è più fredda e austera, frutto dei lunghi soggiorni nel Nord Europa

Grande Guerra. La crudeltà di Cadorna

Corriere della Sera 15.3.08
Grande Guerra. La crudeltà di Cadorna
Fucilazioni sommarie nella fucina dei genocidi
di Frediano Sessi

Alle radici del primo genocidio del Novecento, quello degli armeni, la Grande guerra segna «l'inizio di un imbarbarimento » del modo di concepire i conflitti, che ci appare oggi come una sorta di «laboratorio» delle future violenze dei regimi totalitari. È probabilmente nei suoi campi di battaglia, come scrive Omer Bartov, che gli ideatori della «soluzione finale» conoscono il loro «battesimo di fuoco». Non stupisce perciò che, per contrastare le proteste dei soldati, costretti a combattere in condizioni estreme, il generale Luigi Cadorna, fin dal 1916, si esprima a favore della decimazione, la fucilazione sommaria di un soldato ogni dieci, nei reparti macchiatisi di «reati collettivi». Poiché, malgrado l'obbligo di registrare le esecuzioni sommarie, tale dovere era spesso disatteso, oggi ancora non conosciamo il numero esatto delle vittime.
I due episodi di decimazione ai danni della valorosa Brigata Catanzaro (formata con soldati calabresi a cui si aggiunsero pugliesi, molisani, lucani e siciliani), ricostruiti da Pluviano e Guerrini sulla base di fonti d'archivio, esemplificano assai bene il livello aberrante cui giunsero la crudeltà e l'incapacità dei comandi. Il reparto fu colpito in modo sproporzionato ben oltre ogni addebito giudiziario, legato ad alcuni episodi di protesta e insubordinazione o allo sbandamento durante un attacco sulle pendici del Monte Mosciagh. Gli autori al termine chiedono la riabilitazione delle vittime a più di novant'anni di distanza.
M. PLUVIANO I. GUERRINI Fucilate i fanti della Catanzaro GASPARI PP. 126, e 18

VERONA - «I tesori sepolti possono diventare una risorsa»

VERONA - «I tesori sepolti possono diventare una risorsa»
Alessio Pisanò
Domenica 2 Marzo 2008 L'ARENA

LA CITTÀ NASCOSTA. Lo storico Battiferro Bertocchi interviene sul dibattito relativo ai ritrovamenti archeologici. E spiega come trasformare un disagio in vantaggio

«In lungadige Capuleti c’era un forno visconteo» E piazza Corrubio cela una necropoli romana


«Verona non è una città qualsiasi, e quello che si trova nel suo sottosuolo non sono reperti qualsiasi». Esprime indignazione lo storico dell’arte Riccardo Battiferro Bertocchi sul dibattito a proposito dei ritrovamenti archeologici in occasione dei recenti scavi per la realizzazione di parcheggi pertinenziali. «Non si può dire che un muro od una tomba valgano meno di un’altra», aggiunge, insistendo sull’idea che Verona si renda finalmente conto dell’«inestimabile valore storico-artistico» di cui è depositaria. «I reperti che vengono portati alla luce non vanno visti come un problema, bensì come una risorsa». Oltre che sul valore artistico, Battiferro pone l’accento sui risvolti turistici che tali ritrovamenti possono avere. «La complessità architettonica e urbanistica della nostra città non si può semplificare nei percorsi stereotipati e ormai stantii dei tour operator. Il trittico Casa di Giulietta, piazza delle Erbe e piazza Bra è ormai logoro e semplicistico rispetto alla reale portata culturale del veronese». Secondo Bertocchi, è ormai tempo di creare dei circuiti turistico-artistici alternativi, «che rendano veramente onore al valore millenario della storia di Verona».
Nel caso i recenti ritrovamenti «vengano ignorati», lo storico propone di presentare Verona all’Unesco come «luogo a rischio, così come la valle di Noto in Sicilia».
Per meglio comprendere cosa sta sotto i piedi dei veronesi, disegna una mappa ideale.
LE STRADE. Tre erano le arterie principali che in epoca romana attraversavano la città. La via Augusta, corrispondente all’attuale via Mameli, conduceva a Nord, verso Trento. La via Postumia che da est ad ovest entrava in città attraverso un ponte che non esiste più (tra ponte Pietra e ponte Nuovo) e diventata Decumano Massimo nella sponda interna dell’Adige, correva lungo l’attuale corso Porta Borsari, corso Cavour e corso Porta Palio, portando in direzione di Genova; infine, la via Gallica, che arrivando dall’attuale corso Milano incrociava la via Postumia a San Zeno, in piazza Corrubio.
PIAZZA SANTI APOSTOLI. I reperti antichi ritrovati in piazza Santi Apostoli, potrebbero appartenere a strutture abitative o sepolcrali di epoca romana o longobarda. Si tratta di uno dei primi luoghi dove, nell’Alto Medioevo (VIII-XII secolo dopo Cristo), si costruì fuori dalle mura cittadine. «Questa zona era divisa in quattro piccole contrade: Fratta, Ferraboi, Falsorgo e San Michele alla Porta. Proprio in prossimità di piazza Santi Apostoli, si ergeva la chiesa Sacello delle Sante Teuteria e Tosca, edificata dai Longobardi nell’VIII secolo dopo Cristo», spiega Bertocchi.
Il passaggio della via Postumia lungo l’attuale corso Cavour, è testimoniato anche dai ritrovamenti de un’antica pavimentazione romana in occasione del rifacimento del corso nel 1999. Senza considerare il ritrovamento di una villa romana perfettamente conservata in occasione dei lavori all’ex cinema Astra di via Oberdan. Questa villa faceva parte di un’immensa necropoli che si spingeva fino a viale Colonnello Gallieno: «A riguardo si ricordino i ritrovamenti nei primi anni Novanta in occasione della realizzazione dei due sottopassi».
PORTA SAN GIORGIO. Gli antichi romani erano soliti costruire le loro necropoli al di fuori delle mura cittadine, proprio ai lati delle vie consolari principali. Per questo è più che ipotizzabile l’esistenza di un’ampia necropoli ai lati di via Mameli, dove un tempo correva via Claudia Augusta. «Ne è una prova il rinvenimento di una villa romana in via Nino Bixio, in occasione dei lavori per la realizzazione di una palazzina ancora nel 1926. sempre in coincidenza con via Mameli, scorre l’acquedotto romano che portava l’acqua in città tramite tubi di piombo dalla Valpolicella», continua Bertocchi. L’acquedotto entrava in città tramite ponte Pietra versando l’acqua direttamente nel Foro Romano (l’attuale piazza Delle Erbe). Inoltre, proprio in prossimità di porta San Giorgio, si dovrebbe trovare la chiesa di San Barnaba, di epoca romanica (XII e XIII secolo dopo Cristo).
LUNGADIGE CAPULETI. Quello portato alla luce in lungadige Capuleti è il «muro a fiume» della cittadella viscontea della fine del 1300. «Si trattava di un muro di cinta del piccolo forno militare che Giangaleazzo Visconti fece erigere per proteggere la città dall’estero ma anche dall’interno, cioè da eventuali sommosse popolari. Le altre facciate del quadrilatero (corso Porta Nuova e Circonvallazione Maroncelli) sono andati distrutti durante la dominazione austriaca». Il muro scoperto recentemente durante gli scavi, costituisce l’unica traccia superstite di quella fortezza e dovrebbe essere lungo circa 100 metri. «La sua locazione si vede benissimo dalla mappa disegnata nel 1648 dal Frambotti, illustre cartografo del XVII secolo».
PIAZZA ARDITI. I ritrovamenti di piazza Arditi appartengono al cimitero della chiesa romanica di San Silvestro, dipendente dall’omonima chiesa di Nonantola in provincia di Modena.
PIAZZA CORRUBIO. Piazza «Corrubio», dal latino quadrivium, vale a dire «incrocio». Il nome stesso della piazza rivela che proprio alla sua altezza, in età romana, c’era un incrocio tra due grandi strade: la via Consolare Gallica e, molto probabilmente, la via Postumia. «All’epoca, gli antichi romani erano soliti costruire le loro necropoli al di fuori delle mura cittadine, proprio ai lati delle vie consolari. I ritrovamenti di molti resti avvenuti in occasione di lavori ai sottoservizi in piazza Corrubio non fa che avvalorare questa tesi. Inoltre, il vano sotterraneo recentemente ripristinato all’interno della pasticceria San Zeno corrisponde alla superstite cripta della primitiva chiesa di San Luca, costruita probabilmente nel XII secolo, lungo l’antica via Mantovana (l’odierna via Scarsellini), che conduceva un tempo alla Porta di San Massimo». Questa Porta faceva parte della cinta muraria scaligera, poi ricostruita in età veneziana e successivamente dagli austriaci. Solo successivamente l’Ordine Crocifero costruì un ospizio con annesso luogo di culto dedicato a San Luca evangelista nei pressi dei portoni di piazza Bra.

VERONA - Presentate 220 firme che puntano il dito contro le vendite e la scelta di Goldin

VERONA - Presentate 220 firme che puntano il dito contro le vendite e la scelta di Goldin
Sabato 8 Marzo 2008 L'ARENA

«Preoccupanti scelte culturali della Giunta»

«Esprimiamo viva preoccupazione per gli orientamenti della politica culturale della città e per le conseguenze che potranno avere sul futuro della vita culturale: facciamo appello al sindaco per un ripensamento che ci sembra opportuno».

Si conclude così una lettera aperta sottoscritta da oltre 220 cittadini, tra i quali docenti universitari, esperti d’arte, la soprintendente Cavalieri Manasse, presidi di scuola, liberi professionisti, insegnanti, impiegati, casalinghe inviata al sindaco Flavio Tosi, all’assessore alla Cultura Erminia Perbellini e ai consiglieri comunali sulla politica culturale intrapresa da questa nuova amministrazione comunale.


Il documento fa riferimento alle ultime decisioni, come la vendita di palazzo Forti, attuale sede della Galleria d'Arte moderna, la vendita di palazzo Pompei, attuale sede del Museo di Scienze naturali destinato al palazzo del Capitanio, ma viene citato anche il progetto di accordo quadriennale con la società Linea d'ombra di Marco Goldin per quattro mostre alla Gran Guardia tra il 2008 e il 2011. Le perplessità riguardano «la collocazione del Museo di Scienze naturali nella sede di piazza dei Signori», in merito «sia all'accessibilità sia soprattutto agli spazi notevoli dei quali abbisogna quella istituzione culturale. Non appare un caso che in molte città europee, ma anche in Italia, i musei naturalistici siano ubicati al di fuori dei centri storici: la scelta ora tramontata degli ex Magazzini Generali andava in questa linea».

Per quanto riguarda Goldin, si esprime il timore che pur essendo le proposte «certamente di alto livello culturale, altrettanto sicuramente non avranno alcun collegamento con la città e il territorio. Verranno di conseguenza mortificate, o comunque non potenziate o temporaneamente paralizzate le istituzioni museali locali».


«In ogni caso, l'opzione Goldin appare del tutto divergente e scoordinata dalla linea di politica culturale che, contemporaneamente, la commissione cultura del comune ha elaborato, tutta imperniata sul localismo identitario e sulla valorizzazione di una "veronesità" povera di contenuti, che si dovrebbe concretizzare in iniziative come la ricostruzione del carroccio e il suo ricovero in San Zeno, la riesumazione della navigazione sull'Adige, la creazione di una scuola di canto gregoriano. Sembra mancare dunque una visione d'insieme».

ZEVIO. Necropoli, la Soprintendenza aprirà gli scavi a visite guidate

ZEVIO. Necropoli, la Soprintendenza aprirà gli scavi a visite guidate
Piero Taddei
Martedì 11 Marzo 2008 L'ARENA


Esporre i reperti in castello? Il sindaco viste le spese ci ripensa

La Sinistra arcobaleno chiede alla Provincia «aiuti straordinari» alle ricerche Un museo? «Troppi i costi»


Interrogazione in Provincia sulla necropoli romana in corso di scavo a Rivalunga di Zevio. I consiglieri della Sinistra arcobaleno Paolo Ferrari, Giorgio Scarato e Paolo Andreoli ricordano la scoperta della necropoli risalente a 2000 anni fa, formata da un’ottantina di tombe cui potrebbero aggiungersene altre. Secondo i consiglieri, «c’è la necessità di operare con urgenza per scoprire tutto ciò che la terra cela e per tutelare i reperti da incursioni vandalich, peraltro già avvenute». Per accelerare i lavori e mettere in sicurezza i reperti, i consiglieri chiedono alla giunta provinciale se «non ritenga opportuno mettere urgentemente a disposizione, anche in via straordinaria, un congruo contributo affinché il patrimonio archeologico di Rivalunga torni alla luce e sia valorizzato». Secondo i tre consiglieri di minoranza, la Provincia disporrebbe di un fondo in favore di interventi in campo archeologico.

Il sindaco Paolo Lorenzoni e l’assessore all’urbanistica Nicola Falsirollo hanno incontrato la Soprintendenza ai beni archeologici per sondare la possibilità di creare un museo in castello con almeno parte dell’ingente quantità di reperti gallici recuperati intorno a Santa Maria nel corso di numerose campagne di scavo. «Abbiamo trovato disponibilità in Soprintendenza», spiegano sindaco e assessore, «ma già Legnago e Verona sono dotati di musei con reperti simili a quelli trovati a Santa Maria. Attivare un museo costa 25 mila euro l’anno, oltre ai 100mila euro per il personale specializzato richiesto dal ministero. Per cui ci è stato suggerito piuttosto un centro ambientale storico archeologico». Si tratterebbe, in altre parole, di un minimuseo che esporrebbe mostre itineranti curate dalla Soprintendenza a fianco di una mostra permanente con le copie dei reperti trovati in zona, mentre gli originali resterebbero alla Soprintendenza. Questa soluzione consentirebbe di risparmiare spese di direzione e custodia. Mentre valutano come muoversi, sindaco e assessore comunicano di aver raggiunto un primo risultato: la Soprintendenza si è detta disposta ad accogliere scolaresche sul sito degli scavi a Rivalunga

VERONA - Italia Nostra, Legambiente e Wwf contro il piano del centro sportivo e commerciale

VERONA - Italia Nostra, Legambiente e Wwf contro il piano del centro sportivo e commerciale
Giovedì 13 Marzo 2008 L'ARENA

AMBIENTE/2. Lettera degli ambientalisti alla Soprintendenza
«Stop al progetto del Lazzaretto»

Le associazioni ambientaliste Italia Nostra, Legambiente e Wwf hanno scritto una lettera - firmata da Giorgio Massignan, Lorenzo Albi e Averardo Amadio - alla Soprintendenza ai Beni Architettonici e Ambientali di Verona chiedendole di intervenire per bloccare il progetto relativo alla zona del Lazzaretto che ne prevede la trasformazione in centro sportivo-ricreativo-commerciale.
La prima preoccupazione degli ambientalisti è questa: «Non riteniamo corretto privatizzare un monumento come il Lazzaretto». La seconda: «È inopportuno intervenire in un’area così fragile e delicata. Quest’ansa dell’Adige ha forti caratterizzazioni sia per il territorio agricolo sia per presenze architettoniche: il Forte Santa Caterina, la Corte Dogana con il Borgo San Pancrazio, il Lazzaretto con un proseguo, per ora solo visivo (ma che dovrebbe diventare concreto con un attraversamento dell’Adige) verso Villa Buri».
Il piano ambientale del Parco dell’Adige del 1992, ricordano gli ambientalisti, dice che la riqualificazione del Lazzaretto ha come presupposto «la valorizzazione delle aree demaniali a bosco fluviale e del paesaggio agricolo, in quanto la passeggiata in relax lungo il fiume e i giochi all’aperto nell’area prativa attigua al Lazzaretto ben si inseriscono nella rete di attività del tempo libero che si dovrebbero insediare in tutto il Parco sud, tra cui (vicino al Lazzaretto, appena superato il ponte del Porto) il Centro sportivo attrezzato esistente di Villa Poggi (di proprietà comunale) di cui si ipotizza l’ampliamento. Tutto ciò è stato ribadito nell’aggiornamento del Piano ambientale del 2007».
Ma la proposta progettuale viene contestata anche nella sostanza. Per questi motivi: «L’area è "fragile" dal punto di vista naturalistico, paesaggistico e storico-architettonico. In questo luogo natura, paesaggio e architettura hanno costruito un sistema talmente integrato da essere uno e unico. Riteniamo una contraddizione rinchiudere il Lazzaretto e l’area contigua in uno spazio privato, tenendo presente che le attività proposte necessiteranno di una tessera o di un biglietto d’ingresso e quindi di una recinzione e quant’altro che controlli gli spazi interni.
«Inoltre si ipotizza la "sistemazione degli argini". Significa adeguarli in altezza? In questo modo si modificherebbe uno skyline prezioso per tutta l’area. Infine la viabilità. Un centro così diventa redditizio se attrae giornalmente dalle 200 alle 500 persone. Possiamo immaginare che cosa potrà succedere se non verrà allargata la strada, oltre che allestire parcheggi. Si potrebbe sostenere che ci si arriva solo in bicicletta. Ma non è possibile arrivare in bicicletta per chi utilizza il prato di avviamento per il golf, il beach volley su erba artificiale, il tennis, la piscina, la palestra. Ma allora che relax ci sarà nel «Parco Lazzaretto», se la passeggiata avverrà in un luogo di traffico automobilistico? Il valore della "biodiversità" e dell’"identità dei luoghi" sarebbe eliminato, con l’omologazione dei luoghi e delle funzioni ovunque».

PADOVA - Restauri al tempio della dea Concordia

PADOVA - Restauri al tempio della dea Concordia
Alfredo Pescante
15 MARZO 2008, il gazzettino online


Dalla Provincia 350 mila euro. L’importante area archeologica sarà visibile al pubblico

Grazie al recente stanziamento di 350 mila euro effettuato dalla Provincia di Padova, partiranno a breve i lavori di sistemazione e valorizzazione delle fondamenta del tempio della dea Concordia, emersi nel luglio del 2005 in uno spazio verde a ovest del parcheggio dell'Istituto Marconi che s'affaccia su via Manzoni, a seguito degli scavi per l'interramento d'una vasca antincendio.
Un intervento di salvaguardia fortemente voluto dall'assessore provinciale all'Edilizia scolastica Luciano Salvò che, all'indomani dell'interessante scoperta, aveva deciso di stanziare centomila euro per i primi lavori di sbancamento del materiale terroso, alto anche tre metri, che copriva i resti archeologici, e per le prime opere di catalogazione.

Lo scavo archelogico, affidato ad Alberto Vigoni e diretto dall'architetto Nicola Gennaro, ha consentito di segnare il limite massimo dell'espansione a nord dell'edificio a pianta rettangolare, quantificato in 24,30 per 12,40 metri, con asse est-ovest.

«Penso - afferma l'architetto Nicola Gennaro - che, dopo tale reperimento, dalle prime indagini definito strepitoso, anche perché si tratta del primo tempio romano finora emerso di Patavium, dovremo modificare le carte archeologiche della città. I dati infatti ne indicano con certezza l'espansione effettiva nel I secolo dopo Cristo. I resti del tempio ritrovato sono dotati di un "pronao" a settentrione, di un "porticus" con muro di fondo pieno a ovest e di un "colonnato" sul fronte nord. Tutto fa pensare a un grande efidicio sacro, adiacente alla città romana, che gli storici definiranno se dedicato alla dea Concordia o a qualche altro nume. Per ora accettiamo quanto sostiene lo storico Sertorio Orsato (1617-1679), condiviso anche da Claudio Bellinati, che definisce molto consistente la presenza dei "Concordiales" in Patavium».

Il progetto esecutivo dell'intervento è già stato approvato ed è stato aumentato sensibilmente il finanziamento previsto in via iniziale. Due le ditte che interverranno nell'importante recupero. Alla prima sono demandati i lavori sulle murature, che rivelano tre strati diversi e che potranno essere visibili solo nella parte superiore. La seconda effettuerà la valorizzazione del sito archeologico mediante una piattaforma dalla quale si potranno ammirare i resti del tempio e degli spazi annessi.

I lavori comprendono la creazione di alcune piazzole di sosta per osservare dall'alto il tutto e la messa in opera di adeguata cartellonistica con la planimetria della zona e la ricostruzione del tempio. L'area sarà protetta da un'adeguata recinzione.

«Non conosciamo ancora l'esatta tipologia del tempio - aggiunge Gennaro - per ora basata solo su nostre supposizioni, ma verrà individuata dagli archeologi che ne dovranno decidere anche la datazione: potrà essere definita grazie ai numerosi reperti ceramici rintracciati, attualmente ritenuti del primo secolo dopo Cristo».